Tempi tristi e voglia di letture leggere, fresche, divertenti e romantiche?
Forse ho qualcosa per voi!
Vi lascio un capitolo del mio romanzo "Imperfetta per me". È una commedia romantica dove lui è bellissimo e apparentemente insopportabile in contrapposizione a lei che è dolce, burrosa e molto determinata a mandarlo a quel paese, ma...
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Ecco a voi il primo incontro:
Sofia
Il grande giorno è arrivato. Cristiano Ferrari giungerà nel tardo pomeriggio e se le mie amiche mi stanno tempestando di chiamate, ricordandomi il selfie e l’autografo promesso, quelle di Aurora sono costantemente in contatto con mia sorella che ha giurato loro di riprendere la scena con il cellulare.
Tutta colpa di mia madre che, contrariamente a quello che le avevo chiesto, ha spifferato alle sue amiche che per le prossime due settimane la nostra casa ospiterà il difensore del Lanter che per tirare due calci a un pallone scuce miliardi a una società che lucra su quattro fanatici che riempiono lo stadio.
Scuoto il capo. Se non fosse stato per il bisogno di riempire le casse e saldare gli ultimi debiti, non mi sarei lasciata convincere da Alfredo.
Non mi piace l’idea che casa nostra diventi un alter ego di quello che ha sempre sognato mia madre: un covo di superficiali, con la puzza sotto il naso, che sorseggiano champagne a bordo piscina e trascorrono la notte facendo baldoria. Quaranta mila euro, però, sono quaranta mila euro e i pregiudizi hanno dovuto cedere il passo al senso pratico.
Ho un unico obiettivo in questo momento: ridurre i costi per massimizzare il guadagno da questa nuova esperienza.
Aurora ha provato a proporsi come cameriera, ma mi sono opposta. Lei continuerà a lavorare come baby sitter presso la famiglia di imprenditori che le ha trovato Alfredo, i Colella, mentre io affiancherò Teresa e Anita, per non sprecare altri soldi.
L’unica eccezione è Enzo, il nostro vecchio giardiniere, che in cambio di una paga base si farà carico della manutenzione della casa, lavorando part time.
Mi infilo in cucina, con le braccia cariche di biancheria pulita.
Teresa, una signora voluminosa, dai capelli corti e castani, con la fronte alta e gli occhi grandi e azzurri, si volta a guardarmi, con aria materna, mentre sciacqua nel lavello un ciuffo di insalata.
I nostri ospiti hanno avvisato che per questa sera ceneranno a casa e berranno champagne.
«Perché non ti vai a riposare? Sei qui da questa mattina», mi fa notare la cuoca. «Scommetto che non ti sei fermata neanche per pranzo».
«Non posso. Ho ancora delle cose da sistemare», borbotto, con una smorfia, scostando una sedia e sollevando le gambe gonfie.
«Anita?», mi domanda Teresa.
«Torna tra un paio d’ore», le spiego. «Servirà lei gli ospiti stasera, mentre io mi liquiderò, dopo aver fatto gli onori di casa».
«Capisco», mormora, tornando alle sue incombenze.
Stringo leggermente gli occhi, osservandola di sottecchi.
«Perché ho come l’impressione che tu non mi abbia detto tutto?».
«Io?». Si volta a guardarmi sorpresa, arrossendo. «Sai bene, che non mi permetterei mai…».
«Teresa, sputa il rospo», la incalzo.
«E va bene», sbotta, riponendo sul ripiano in marmo il ciuffo di insalata che stava lavando e voltandosi a guardarmi.
«A mio parere ha ragione tua mamma», chiarisce. «Non dovresti occuparti tu di queste cose».
«Di cosa stiamo parlando, precisamente?», le chiedo, sollevando un sopracciglio.
«Di questo!». Indica la mia divisa azzurra, con grembiulino bianco.
«Non dovresti affiancare Anita», osserva. «Tu sei la padrona di casa e dovresti limitarti a ricevere gli ospiti, per poi sparire per il resto del soggiorno».
Scuoto il capo.
«Abbiamo già parlato di queste cose», le ricordo. «I soldi ci servono per saldare i nostri debiti».
«Sì, mi hai spiegato tutto, ma questa è gente abituata al lusso, che non apprezzerà sapere che la padrona di casa si divide tra il giardino, la cucina e la rappresentanza». Scuote il capo. «Abbassi lo standard della casa, danneggiando l’immagine di professionalità che è fondamentale per far salire il prezzo», si anima. «A questo punto, perché tu e non tua mamma o anche tua sorella?», mi domanda provocatoria, portandosi le mani sui fianchi e sgranando gli occhi.
«Come se non le conoscessi», sbuffo. «Teresa, mia madre non ha mai provveduto alle sue cose. Come potrebbe occuparsi di quelle degli altri?».
«Sì, hai ragione, ma tu devi tornare sui libri», si sfoga. «Tuo padre non avrebbe mai approvato la tua decisione di rinunciare agli studi, per finire a fare la cameriera».
Un sorriso mi piega le labbra. Ecco il vero motivo di questa ramanzina.
Teresa lavora in questa casa da almeno vent’anni. Fa parte della famiglia e ha pianto di cuore la scomparsa di mio padre.
«Non ho smesso di studiare, ma ho sospeso solo per il momento, perché ci sono priorità che non possono aspettare».
«Servire e riverire il traditore che ha accettato di andarsene dal Napoli per giocare al Nord, guadagnando milioni?».
«Non sapevo che t’interessassi di calcio», commento divertita.
«Io no, ma mio marito e mio figlio sanno tutto di questo Cristiano Ferrari e mi hanno detto che è un mercenario che pensa solo ai soldi».
«Non me ne intendo di calcio, ma la fedeltà alla maglia è cosa rara e il dio denaro tenta un po’ tutti».
«Sì», abbozza un sorriso, ma non molla. «Comunque, pensa a quello che ti ho detto ed escogita un modo per prenderti la laurea, continuando poi per la specialistica».
«Mi sembra di sentire mio padre», osservo, abbassando lo sguardo sugli asciugamani che profumano di bucato fresco.
«Be’, tuo padre aveva ragione».
«Ah sì?», le domando, decisa a togliere le tende.
«Sì», mi conferma con determinazione.
«Certo, sempre meglio di mia madre, per cui dovrei decidermi a trovarmi un marito che si occupi di me».
«In effetti, non sarebbe una cattiva idea», mi conferma Teresa, sollevando il mento, orgogliosa.
«Chi si sposa?».
Anita irrompe nella stanza, attirando il nostro sguardo su di lei.
Non si è ancora cambiata e con i capelli neri e corti, che le carezzano la nuca, e il fisico snello e aggraziato, sembra pronta per una sfilata.
«Cosa ci fai qui?», le chiedo stupita. «Non eravamo d’accordo che mi avresti raggiunto per l’ora di cena?».
«Sì, il piano originario era questo, ma a casa si è scatenato il putiferio, quando mio padre e mio fratello hanno scoperto chi avrebbe alloggiato in questa villa».
«Non mi dire…», mormoro tra i denti. «Altri tifosi del Napoli?», le domando, cercando lo sguardo complice di Teresa che si anima nuovamente, spiegandoci:
«Mio marito mi ha detto che è un difensore molto bravo, ma ha tradito il Napoli per soldi, per finire in una squadra sconosciuta che si contrappone al Milan e alla Juventus…».
«Questo è quello che sostengono i tifosi napoletani», chiarisce Anita che, a differenza di me, è padrona dell’argomento. «Ma mio fratello, che se ne intende di calcio, sostiene che l’atteggiamento dei tifosi napoletani non abbia senso, perché le stagioni che ha giocato al Napoli, Cristiano è stato molto sacrificato…». Scuote il capo, decisa a cambiare argomento. «In ogni modo, io non parlavo di lui come calciatore, ma come uomo…».
«Come uomo?», le domando, crucciata.
«Sì, come uomo», annuisce. «È uno a cui piacciono le donne», mi illumina.
«Andiamo bene!», esclama Teresa alle mie spalle, strappandomi un sorriso, ma poi un nuovo pensiero si fa largo nella mia testa e, sgranando gli occhi, chiedo alla mia bellissima cameriera:
«Ma è un pettegolezzo dei giornali o davvero non si fa scrupoli a provarci con chiunque gli capiti a tiro?».
«Sei preoccupata per la tua virtù?», mi canzona divertita Teresa, dandomi una piccola spinta e costringendomi a voltarmi.
«Non è per me che mi preoccupo», le assicuro, spostando lo sguardo su Anita che esclama, incredula:
«Non comincerai anche tu con il sermone sulla debolezza della carne e la lontananza di Salvatore?», mi domanda esasperata.
Salvatore è il suo fidanzato da tre anni, un capitano di marina, che lavora in missione all’estero.
È un tipo piuttosto geloso, ma non ha mai fatto eccessive discussioni per la presenza di Anita nella nostra casa. In fondo, a parte mio padre, che non è mai stato un don Giovanni, eravamo tutte donne e, pur se lontano, si sentiva sicuro, sapendola per buona parte della giornata a servizio da noi, ma se la nostra nuova attività andasse bene, la clientela potrebbe essere sempre diversa e questa volta Salvatore dovrebbe fare affidamento solo sulla serietà della sua fidanzata, per stare tranquillo.
«Non pensavo a te», riconosco. «Certo, sei bellissima e sicuramente, se è come dite voi, non mancherà di apprezzare la tua avvenenza, ma io mi preoccupo per mia sorella, che non ha nemmeno la metà della tua affidabilità e che potrebbe aver già elaborato uno dei suoi strampalati piani, sognando di conquistare il grande sportivo».
«Ah già! Non ci avevo pensato», riconosce la mia amica. «In effetti è molto da lei», mi rincuora.
«Grazie», bofonchio, preoccupata.
«Sofia, Aurora è una persona adulta e deve imparare a farsi carico dei suoi errori», mi ripete per la centesima volta Anita, con un’espressione dolce e determinata insieme.
«Lo so, ma io mi sento responsabile, soprattutto ora che papà non c’è più».
«Questo lo capisco, ma conosci Aurora e sai che non può fermarla nessuno, se si mette in testa di conquistare qualcuno».
«Lo vedremo», osservo, serrando le labbra.
***
Lucas
Mi sono fatto convincere da Cristiano a non tornare in Brasile per questa estate, ma se il paesaggio circostante è degno di nota, la compagnia ancora una volta non si è rivelata all’altezza delle aspettative.
Dovevo immaginare che, quando il mio amico mi ha parlato di una villa immersa nel verde, costruita su un promontorio roccioso, in una zona quasi incontaminata, in un bosco rigoglioso, a pochi passi dalla casa gotica di un regista e di milionari sempre all’estero, non intendeva certo una vacanza rilassante e magari anche divertente tra amici.
Cristiano non sa vivere senza una donna al suo fianco e la parola vacanza per lui equivale a sesso sfrenato, feste che terminano al mattino e lunghe giornate in barca in compagnia di signorine disponibili, le cui allettanti curve ci costeranno non meno di quanto l’intera vacanza. Non che mi dispiaccia passare un po’ di tempo senza pensieri, prima di tornare agli allenamenti e alle rigide regole del calcio, ma la rossa che continua a strusciare la sua gamba contro la mia, mentre mi carezza con lo sguardo il torace disteso al sole, non fa altro che ricordarmi le mie mancanze e questo non mi è affatto di aiuto.
Siamo in barca da sei giorni e seguire lo skipper di ritorno a Genova mi sembra ogni minuto che passa più allettante.
«Vado in camera», comunico alla mia gentile ospite, alzandomi dalla sdraio con un balzo e allontanandomi dall’asciugamano, mentre guardo l’orizzonte dalla prua. Il cielo è al tramonto e l’incendio davanti ai miei occhi mi sorprende. Era tempo che non ammiravo un cielo così infuocato. I colori sono accesi, intensi e avvolgenti.
Tasto le tasche dei miei pantaloncini alla ricerca dello smartphone, ma mi accorgo presto di averlo lasciato in cabina.
Serro le labbra e mi irrigidisco appena avverto quelle unghie laccate correre lungo la mia schiena.
«Non mi ero accorta che fossimo quasi arrivati», mi sussurra Gaia, adagiandomi il capo sulla spalla.
Stringo gli occhi, spostando lo sguardo verso la costa. Dieci minuti e saremo nel porto.
«Già», mormoro, scostando quella mano dal mio torso. «Avviseresti Cristiano e la tua amica?», le domando, decidendomi a spostare lo sguardo in quegli occhi azzurri che hanno qualcosa di spento.
È come se la vita avesse perso entusiasmo.
«Non credo che apprezzerebbero essere disturbati», osserva, arricciando la bocca a prova di baci.
«Apprezzeranno, invece», le garantisco con sufficienza, spiegandole:
«Se non escono da quella cabina prima di un quarto d’ora, ripartiranno con il mio skipper alla volta di Napoli».
«Come vuoi», mi concede di cattivo umore, rinunciando al contatto fisico per infilare le sue ciabattine dal tacco alto, sculettando fino all’ingresso in barca.
Attendo che sparisca dalla mia vista, per concedermi un ultimo sguardo al panorama che si distende davanti ai miei occhi.
Non sono mai stato a Ischia, l’isola verde. È diversa da come me la immaginavo. A guardarla da lontano si direbbe piuttosto grande, con un piacevole degradare dalla montagna alla costa in filari di viti. Le case fanno capolino tra il verde rigoglioso e il canto dei gabbiani che sfiorando l’acqua rendono il quadro ancora più attraente.
Certo, dopo una settimana tutto questo non basterà a combattere la noia, ma è stato un anno impegnativo e la squadra si aspetta molto da me alla ripresa. Dunque, un po’ di riposo non mi farà male. E se il soggiorno si rivelasse troppo difficile da sopportare, mi basterà richiamare Matteo che tornerà a prendermi, per continuare la vacanza su questo Yacht di quarantasette metri, dotato di tutti i confort.
Mi chino a recuperare l’asciugamano sul lettino e mi decido a rientrare.
Devo farmi una doccia e indossare qualcosa di comodo per la serata.
Fortunatamente, il mio amico ha bocciato l’idea delle ragazze di uscire questa sera. Così, una volta arrivati potremo prendere confidenza con la casa, rimandando a domani l’immancabile bagno di folla. Che ci sarà, nonostante il poco amore dei campani per Cristiano, ne sono certo.
Diversamente da lui, io sono considerato un calciatore super partes che tutti i tifosi vorrebbero nella propria squadra.
Increspo le labbra. Non mi stupirei se il bastardo non ci avesse pensato, quando mi ha proposto la meta. Scuoto il capo. No. Cristiano è un amico. Il suo obiettivo è dimostrarmi che esiste molto altro oltre al calcio ed io voglio credergli, perché ho davvero bisogno di tornare a vivere, dopo tanto dolore.
«Ah, ecco dove eri finito».
Ho appena messo piede nel salotto di bordo e la voce frizzante di Cristiano mi arresta.
Mi volto a cercarlo e scuoto la testa. È a piedi scalzi, con uno striminzito paio di pantaloncini rosa e il torso scoperto, piegato sul mobile bar, a caccia di qualcosa con cui riempire i suoi bicchieri.
«Ti sei accorto che siamo quasi arrivati?», gli chiedo, lanciandomi sulla spalla l’asciugamano che mi trascino dietro.
«Calma, amico», si raddrizza, guardandomi da sotto le ciglia. «Ti ricordo che siamo in vacanza».
«Sì, ma Matteo deve ripartire prima che scenda la notte».
«Con quello che paghi per questo piccolo gioiellino, potrebbe ripartire anche domani mattina».
«Mi piace rispettare i patti», gli ricordo.
«E li rispetteremo», mi assicura, rinunciando alla sua bevuta e avanzando verso di me.
Mi fa cenno di stare calmo, poggiandomi una mano sulla spalla e strizzandomela.
«Rilassati!», mi ripete, scrutandomi in viso. «Gaia non è stata all’altezza delle aspettative?».
«Da quando parliamo delle nostre prestazioni sessuali?», gli chiedo, incerto se irritarmi o reggergli il gioco.
«Da quando passi il tuo tempo prendendo il sole, invece di approfittare del momento?», mi chiede abbassando la voce e guardandosi furtivo intorno.
Lascio correre lo sguardo su quell’ambiente spazioso, dai divani in pelle e gli arredi eleganti, di un caldo legno, per poi tornare a lui.
«Non è servito a nulla, come ti avevo detto», gli rivelo, scostandomi infastidito. Detesto parlare delle mie mancanze, ma Cristiano è convinto che con la persona giusta tutto si risolverà, come per magia.
«Ho capito». Si piega nelle spalle. «Se vuoi, possiamo fare cambio», mi propone con una tale rilassatezza che per qualche istante temo parli sul serio. Invece, si scioglie in una risata, dandomi una pacca sulla spalla.
«Avresti dovuto vedere la tua faccia!», mi dice, sciogliendosi in una risata. «Amico mio, tu non sai goderti la vita», mi assicura. «Comunque, non devi preoccuparti. Electra ha avuto una telefonata mezz’ora fa», mi annuncia. «Deve partire per Los Angeles tra un paio di giorni per un provino e Gaia, immagino, la seguirà a ruota. Dunque, presto sarai libero da inutili tentazioni».
«Non sarei tanto ottimista», gli rispondo. «Gaia ha grandi progetti per questa vacanza», gli rammento con una smorfia.
«Forse li aveva prima di conoscerti, ma il tuo atteggiamento ha raffreddato i suoi bollenti spiriti e ora è in camera con la mia conquista a lamentarsi del tuo scarso entusiasmo».
«E tu come fai a saperlo?», gli chiedo, piegando le braccia sul petto.
«Conosco le donne e ogni loro singolo sguardo».
«Lo pensi davvero?», gli domando, cercando di tenere a bada l’ilarità che mi pizzica la gola.
«Se non mi credi, aspetta stasera», profetizza, dandomi una pacca sulla spalla. «Ti libererai presto di Gaia, ma per il tuo bene, ti invito a cercarti una compagna di vita con cui riempire la tua esistenza, perché questa cosa del calcio ventiquattro ore al giorno non si può reggere».
«Tu sei pazzo», rido. «Io sto benissimo da solo e anzi, consiglio anche a te un po’ di solitudine che non ti farà affatto male».
«Impossibile». Cristiano scuote il capo. «Io ho un animo romantico che mi accompagna anche in campo».
«Chiamalo animo romantico…».
***
Sofia
Pericolo scampato! Almeno per questa volta. Con sommo rammarico di mia madre, questa sera faremo a meno della sua presenza. Ha contato le ore che la separavano dall’orario di chiusura del negozio, per precipitarsi a casa e salutare i nostri ospiti, ma è stata costretta a cambiare i suoi piani, per non offendere la sua amica, Paola Conti, una delle poche che non ci ha voltato le spalle, dopo le nostre sventure economiche. Partecipare alla sua festa di compleanno è un dovere per mia madre, prima che un piacere.
Il vero colpo di fortuna, però, è stato il provvidenziale imprevisto che ha travolto e irritato Aurora.
Sono riuscita a fermarla, grazie all’intervento di Alfredo che, tornato di recente dal suo viaggio in America, ha invitato i genitori delle pesti a cena fuori, costringendo di fatto mia sorella a fermarsi fino a tarda sera.
Come immaginato, Aurora non ha accolto favorevolmente la novità, ma non ha potuto sottrarsi, senza rischiare di perdere il lavoro, dove arriva sempre in ritardo, chiedendo anticipi per le sue spese.
«Se continueranno con queste pretese, mi licenzierò prima della fine di agosto», mi ha appena annunciato al telefono, per poi sciogliersi al pensiero dei nostri ospiti.
«Sono arrivati?», mi chiede, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Gli fai una foto per me?».
«Aurora, io sono qui per lavorare», le ricordo.
Lo sbuffo che ne segue anticipa il borbottio tanto atteso.
«Ed io che perdo tempo con te!», sbotta, per poi chiedermi:
«Anita è lì?».
«Aurora…».
«Ok! Ho capito. La chiamo sul cellulare», mi risponde, chiudendo la conversazione per appellarsi alla nostra vecchia cameriera.
«Aurora», sento Anita rispondere qualche istante dopo dal corridoio.
Sorrido allontanandomi dal salotto. Se c’è una persona di cui posso fidarmi è proprio lei. Aurora può dire addio, almeno per stasera, ai suoi sogni di gloria!
Mi affretto a raggiungere l’ingresso. Ho sentito il citofono suonare e considerata l’ora, sono le nove passate, deve essere proprio Cristiano Ferrari che si degna di arrivare con oltre un’ora di ritardo.
«Sì?», sollevo la cornetta, scrutando dal video l’uomo fermo davanti al pilastro del cancello.
Non è sicuramente lui, realizzo.
Basso e tarchiato, indossa un cappello con visiera che gli copre il volto abbronzato.
Il Cristiano che ho scorto in rete, invece, è biondo e piuttosto atletico.
«Signora, il Fenomeno è arrivato», esclama il tassista, visibilmente emozionato.
A giudicare dall’entusiasmo con cui lo ha annunciato, non si direbbe così inviso ai napoletani, ma forse hanno scelto di farsi portare a destinazione da un tifoso compiacente.
Increspo le labbra, divertita dal mio pensiero.
Non capirò mai la foga di certi tifosi che si venderebbero anche la madre per un cimelio del loro campione.
Per me una squadra vale l’altra, e se ho sempre nutrito una certa simpatia per la nazionale, che ci rappresenta nel mondo, i calciatori mi appaiono come dei mercenari che cambiano maglia a suon di milioni.
Fenomeno, poi! Cristiano Ferrari per il momento non ha mai vinto un campionato, anche se è nella rosa della nazionale. Scuoto il capo, strappandomi ai miei pensieri.
Comunque lo chiamino, quello che conta per me è il suo conto in banca.
Quaranta mila euro sono approdati questa mattina sul nostro conto corrente e per due settimane la nostra casa sarà la sua casa.
«È arrivato?».
Anita mi raggiunge alle spalle, sbirciando attraverso la telecamera.
Il tipo paffuto, dalla pancia pronunciata e la testa calva, s’infila in auto, mentre il cancello automatico spalanca l’accesso ai nostri ospiti.
«Sì, il fenomeno è arrivato», le annuncio, voltandomi a guardarla.
Anche con la divisa Anita non passa inosservata e, se è vero che il Fenomeno è un consumato don Giovanni, Salvatore questa volta avrà davvero motivo di preoccuparsi, perché chiunque farebbe follie per una come lei.
«Il Fenomeno hai detto?», mi domanda la mia amica, sgranando gli occhi, visibilmente eccitata.
«Non mi dire che devo preoccuparmi anche di te?», le chiedo, sorpresa.
Conosco Anita da almeno cinque anni e mi è sempre sembrata una ragazza con la testa sulle spalle, ma dal modo in cui allunga il collo, sbirciando le immagini che la telecamera ci restituisce dell’auto che percorre il nostro viale, temo che il soggiorno dei nostri ospiti porterà non poco scompiglio.
«Non si riesce a vedere con chiarezza», mormora la mia amica, stringendo gli occhi. «Secondo te, quante persone ci sono in auto?».
«Lo scopriremo presto, visto che tra due minuti saranno qui», le ricordo, spalancando la porta, ma Anita mi serra una mano sul braccio, arrestandomi, per chiedermi:
«Sofia, sai cosa significa, vero, avere il Fenomeno qui?».
«Intendi, a parte non restituirgli il bonifico che mi permetterà di saldare alcuni dei nostri debiti?».
Anita mi osserva in silenzio, qualche istante, per poi chiedermi:
«Sai chi è il Fenomeno, vero?».
«Cristiano Ferrari?».
«Oh Sofia!».
Anita si porta le mani alle tempie, come preoccupata che i capelli possano essere in disordine.
«Ma non sai proprio niente di calcio?».
«Dovrei?», le chiedo, senza poi lasciarla rispondere. «Non basta che mi sia informata sulle reali capacità di saldare quanto dovuto?».
«Sei incorreggibile!», mi assicura, ridendo. «Hai sbagliato indirizzo di studi», osserva, scuotendo il capo. «Più che lingue, dovevi studiare economia».
«Sì, può essere», la liquido, frettolosamente, per poi chiederle, incuriosita:
«Chi è il Fenomeno?».
«Qualcuno con cui potresti mettere a frutto i tuoi studi», mi risponde, con uno strano sorrisetto sulle labbra, per poi darmi una piccola spinta verso l’esterno, dove il taxi si è appena fermato.
Un fascio di luce ci investe. Stringo gli occhi, preparandomi a scendere i pochi gradini che conducono al patio che dà accesso alla casa.
Sento un rumore di portiere che si aprono e qualche istante dopo un chiacchiericcio femminile riempie l’etere.
Scorgo un giovane dai capelli rasati sui lati e un ciuffo biondo sulla fronte che, in maglietta e pantaloncini, ride divertito alla battuta di qualcuno.
Ha un sorriso cordiale, coinvolgente, e un profilo regolare.
Dalle foto, mi sembra lui.
«Signor Ferrari, buonasera!», scendo i gradini andandogli incontro.
Avrei voluto indossare la divisa, ma Teresa e Anita si sono dette profondamente contrarie.
In assenza di mia madre, sono io a dover fare gli onori di casa e così ho optato per un abito di cotone a fiori su fondo scuro, che mi sta discretamente e non mi fa sentire troppo a disagio.
«Buonasera», mi risponde, ma il sorriso sulle labbra si attenua, appena mi mette a fuoco, scorrendo la mia figura.
Non sono sicuramente il suo tipo, ma non me ne preoccupo. Non punto certo ad accrescere la sua schiera di trofei, ma contrariamente a quello che penso, una volta terminata l’analisi, risale al volto e sorride.
Ha un bel sorriso devo riconoscere. Denti grandi e bianchi, come quelli che si vedono in televisione e sui giornali e una luce viva nello sguardo.
«Sofia Barbieri», mi presento, allungandogli una mano.
«Così lei è la figlioccia di Alfredo…».
Ricambia la mia stretta.
Ti immaginavo diversa, mi sembra di leggergli in viso, ma resta in silenzio, mentre gli confermo:
«Sì, sono io».
«Mi ha parlato molto bene di lei e della sua famiglia».
«È un caro amico», riconosco, per poi stringere le labbra appena una bionda giunonica dagli occhi azzurri avanza annoiata verso di lui, in uno striminzito paio di pantaloncini bianchi, infilandogli una mano sotto alla maglietta, con grande intimità.
«Ne abbiamo ancora per molto?», gli chiede, con aria annoiata.
Le iridi celesti del giocatore si spostano da me a lei, per suggerirle:
«Perché non cominci a prendere confidenza con la casa?».
«A quale scopo?», gli domanda per nulla doma, afferrandolo per la maglia e reclinando il capo con fare vezzoso.
Ecco, questo io non saprei farlo, anche se mi sembra un gesto molto femminile.
Mi accorgo che involontariamente sto cercando di imitarla e con un colpo di tosse mi raddrizzo, attirando l’attenzione del mio ospite.
«Non mi hai detto che volevi fare un bagno in piscina prima della cena?», le rammenta.
«Sì, ma non senza di te».
Ha un tono petulante che mi dà sui nervi.
Sarà anche femminile, ma l’aria da gatta morta non gliela invidio affatto.
«Electra».
Ed ecco uscire dall’auto un’altra prorompente bellezza dai capelli rossi che diversamente dalla sua amica si degna di salutarmi con un cenno del capo, per poi tornare alla bionda.
«Lucas ed io entriamo», l’avvisa, per poi chiedermi:
«C’è qualcuno che può occuparsi del nostro bagaglio?».
Mi mostra una fila di valigie che il tassista ripone a terra.
Com’è riuscito a farle entrare tutte nel portabagagli?
«Sì, naturalmente…», farfuglio, incerta, sentendomi gli occhi della rossa addosso.
Mi guarda come se fossi un insetto fastidioso, aumentando il mio imbarazzo, perché Enzo non c’è ed io non ho considerato questo piccolo particolare.
Mi mordo un labbro, valutando la possibilità di portarle io, ma mi rendo conto che non è molto professionale. Anche se, in effetti, come proprietaria non dovrei nemmeno servire a tavola ed è invece quello che farò appena la compagnia qui presente si sarà sistemata. Ma sì, meglio che lo scoprano subito, in barba ai finti svenimenti di mia madre e all’espressione inorridita di mia sorella, appena lo scoprirà.
«Anita!», mi volto a cercarla.
È rimasta sul pianerottolo di casa e impiega qualche istante a capire che la sto chiamando.
«Anita!», mi ripeto, sollevando un braccio.
«Sì», esclama, sorpresa, distogliendo lo sguardo imbambolato oltre le mie spalle, decidendosi finalmente a raggiungermi.
Chi cavolo stava guardando? Cristiano è davanti a me, in compagnia della bionda giunonica che gli carezza la spalla, con fare possessivo. Giro sui tacchi e sobbalzo. Non mi ero accorta che ci fosse qualcun altro in auto, ma in effetti Alfredo mi aveva parlato di quattro ospiti. Trattengo il fiato, passandolo in rassegna. Un metro e ottantacinque di muscoli ben distribuiti su un corpo atletico e una pelle ambrata che ricorda il sud del mondo. Il volto è un concentrato di virilità e armonia insieme. Non è una bellezza classica, ma ha qualcosa che lo rende difficile da dimenticare.
Per non parlare degli occhi: grandi, intensi e di un sorprendente zaffiro.
Apro la bocca incredula, ma mi costringo a richiuderla, appena la divinità solleva una mano per ricacciare indietro quei riccioli umidi che gli sfiorano le spalle.
«Non mi dica che non avete un facchino?», mi domanda, scrutando intorno, visibilmente contrariato.
Ogni pensiero lusinghiero su di lui muore sul nascere.
Serro le labbra, cercando qualcosa di sensato da rispondergli, ma Anita mi raggiunge, emozionata, con le gote rosse e gli occhi lucidi.
«Eccomi!», esclama, affiancandomi, per poi salutare i nostri ospiti con un cordiale:
«Buonasera».
Batto un paio di volte le ciglia, mentre cerco freneticamente un modo per uscire dignitosamente da questa situazione.
«Anita, scusami», esordisco, inumidendomi le labbra. «Potresti accompagnare i signori in casa, mentre io cerco Enzo, per chiedergli di occuparsi dei bagagli?».
«Enzo?», mi domanda accigliata la mia complice.
«Sì, il nostro facchino», scandisco lentamente, con sguardo implorante.
«Ah sì. Certo!», esclama con enfasi, voltandomi le spalle.
«Se volete seguirmi…».
«Vi raggiungo tra qualche minuto», ritengo doveroso aggiungere, per poi essere travolta dal tassista che, come in preda a una frenesia, si ferma davanti a me, con il berretto tra le mani e gli occhi rivolti verso l’alto.
«Fenomeno, ti posso chiedere un autografo?».
Come lo ha chiamato?
Mi volto a cercare Anita che, contrariamente a quanto ha detto, è ancora al mio fianco con lo sguardo fermo sul tizio che è appena sceso dall’auto, guadagnandosi la mia inimicizia, per il suo tacito dissenso.
«Se hai una penna e un foglio…», gli risponde a mezza voce l’interessato, con aria annoiata, come se gli facesse un favore. Sento il mio viso contrarsi, in una smorfia di sopportazione.
Sarà bello da accapponare la pelle, ma quanto al resto…
Chi cavolo si crede di essere?
Il tassista annuisce emozionato, infilando la testa nell’auto, tirando fuori dal cruscotto un pennarello, per porgerlo al musone, insieme al suo berretto.
«Qui!», gli indica, per poi chiedergli:
«Potete aggiungere anche “A Pasquale”?».
Non gli risponde, ma scarabocchia qualcosa sulla visiera del berretto e glielo restituisce.
«Ti basta il suo o vuoi anche il mio?».
Ferrari, che è rimasto in disparte fino a questo momento, avanza divertito.
«Sì, boss!», esclama l’uomo, riguardando con emozione quella linea non definita, per poi sollevare il capo con gli occhi ancora scintillanti per l’emozione, porgendo a Ferrari lo stesso berretto.
Prima però che possa afferrarlo, il tassista tira indietro il braccio.
«Io l’autografo me lo prendo e vi do la mia parola che lo terrò come un cimelio insieme a quello del Fenomeno…», lancia uno sguardo adorante al suo idolo per poi continuare:
«Voi, però, dovete riconoscere che vi siete comportato veramente male con il Napoli e noi tifosi», ci tiene a precisare. «Ci avete lasciato per andare a giocare con una squadra che non conosceva nessuno e solo per i soldi».
Ecco ritornare in auge la vecchia questione dello smacco. I napoletani sono capaci di grandi amori, ma anche di feroci vendette. Mi soffermo a scrutare Ferrari. Non sembra particolarmente infastidito dalla precisazione del tassista.
Anzi, sorride divertito, recuperando il cappello e piegando un ginocchio, per avere un appoggio per il pennarello.
«E a Lucas non dici niente?», gli chiede tra il serio e il faceto. «Anche lui ha lasciato una squadra importante per giocare al Lanter», gli fa notare.
«È diverso», gli assicura l’uomo. «Lui lo ha fatto alla ricerca di nuovi stimoli, mentre voi…».
«Io sono un traditore».
«Un pochino, sì», riconosce l’uomo, per poi schiudere le labbra in un sorriso. «Però siete simpatico e sapete incassare», osserva con animo lieto, infilandosi il cappello sul capo.
«Ok».
Il Fenomeno rompe le righe, visibilmente annoiato.
«Se non c’è altro, io entrerei», esclama afferrando un borsone e sorpassandomi senza neppure degnarmi di un cenno di saluto.
«Ci accompagna lei?», chiede ad Anita che, diversamente da me, non sembra aver registrato i modi sgarbati di questo energumeno che non conosce le buone maniere e parla con uno spiccato accento latino, non ancora ben identificato.
«Sì, il Fenomeno ha ragione», si riscuote il tassista. «Vi sto facendo perdere tempo».
Allunga una mano a Ferrari, in segno di pace. L’animosità di poco prima pare scomparsa.
«Se avete bisogno, io sono a disposizione».
Gli mostra la scritta sul fianco dell’automobile.
«Basta che cerchiate su internet Pasquale ti porta dove vuoi…».
«Lo farò senz’altro», ricambia il suo saluto il calciatore.
Non lo avrei mai detto, ma contrariamente a quello che avevo pensato, questo Ferrari non è affatto male.
L’altro invece…
Faccio una smorfia. Sarà difficile sopportarlo.
Marianna Vidal, Imperfetta per me, Amazon (ebook e cartaceo), Kindle Unlimited.
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