Prologo
Londra,
dieci anni prima
Una
settimana a Natale
Alice
Mi
sono sempre chiesta come sarebbe stato indossare un abito da damigella d’onore,
ma mai avrei pensato di farlo per partecipare alle nozze di Davide, il mio
Davide.
Invece,
eccomi qui, con un abito di organza e seta rossa, con il corpino ricamato e una
coroncina tra i capelli che mi ricorda una moderna Cenerentola arrivata tardi
alla festa di Natale, battuta sul tempo dalle figlie della matrigna.
Non
che la madre di Bethany sia minimamente paragonabile alla cattiva della fiaba,
ma la figlia…
Faccio
una smorfia, scrutandola da questa angolazione.
Al
centro della grande pista da ballo, circondata da uno stuolo di invitati, regge
il centro della scena, con le sue movenze eleganti.
Bella
è bella. Impossibile non ammetterlo, con quel fisico scolpito nel marmo, che le
consente di indossare qualsiasi cosa, senza mai sfigurare: seno alto e sodo,
fianchi leggermente arrotondati, pancia piatta, gambe chilometriche e un
sorriso degno di una campagna pubblicitaria.
Potresti
scambiarla per una modella, ma no, lei non sfila sulle passerelle. Lei lavora
con il padre, Edward William Wright, nello studio
legale di famiglia, dove di recente è stato assunto anche Davide.
Mi
mordo un labbro, cercando lo sposo per la sala. Si muove tra gli invitati,
scambiando sorrisi e strette di mano, ridendo alle battute di qualche amico o
parente un po’ alticcio. Eccolo! Il mio cuore ha un sussulto, mentre sospiro
senza speranza.
Bruno,
con i capelli mossi e gli occhi blu, indossa un elegante abito da cerimonia che
gli è costato un occhio della testa, con tanto di rosa all’occhiello e foulard
in seta a carezzargli la gola.
Ingurgito
il liquido dorato che resta nel mio bicchiere, socchiudendo brevemente le
palpebre.
Lo
abbiamo scelto insieme quell’abito, due settimane fa.
Sono
venuta di proposito, per accompagnare il mio migliore amico alle nozze… A dire
il vero, il mio intento era quello di mandarle a monte, ma la vulcanica Bethany
ha pensato bene di cambiare le carte in tavola, chiedendomi di farle da
damigella d’onore, coinvolgendomi in buona parte dei suoi preparativi,
riducendo drasticamente il mio tempo a disposizione per restare sola con lo
sposo.
Come
se non sapessi che non mi sopporta, ma lei, a differenza di me, sa sempre come
comportarsi.
Bethany
la perfetta, Bethany l’irresistibile, Bethany, la moglie di Davide, la donna
che ha distrutto ogni mia speranza!
Serro
le labbra, reclinando il capo all’indietro per ingurgitare quanto resta dello
champagne nel mio bicchiere.
La
colpa è solo mia. Ho incasellato un errore dietro l’altro e ora non c’è più
rimedio.
Davide
ha detto sì e si è legato per sempre a quella versione rivisitata di Barbie che
gli sorride come se non ci fosse un domani e stringe la sua mano con fermo
possesso.
Cogliona
io che ho anche accettato di partecipare alle loro nozze!
Non
mi sarei dovuta muovere da Pango, altro che prendere l’aereo e volare a Londra.
Invece
l’ho fatto, perché Davide mi ha pregata ed io non riesco a negargli nulla.
Colpa
mia! Chi lo ha rifiutato cinque anni fa, per paura di perderlo come amico?
Ovviamente, io.
Porca
la miseria! Ma come potevo immaginare che mi sarebbe bastato rivederlo, dopo
pochi mesi, di ritorno da Londra, per scoprire che quello che provavo non era
affatto un sentimento fraterno, ma qualcosa di molto diverso?
La
mia solita fortuna.
Davide
è tornato, felicemente fidanzato, al fianco di una biondina che era una copia
sbiadita di quella che me lo avrebbe portato via per sempre…
Afferro
la bottiglia al centro del tavolo e la rivolto, per vedere approdare nel mio
bicchiere vuoto una misera goccia di champagne.
«Cazzo!»,
sbotto molto poco elegantemente, adocchiando il vino sul tavolo accanto al mio.
Mi
guardo intorno.
Non
c’è che desolazione attorno a me: sedie scostate e tavoli depredati, con
bicchieri semipieni, piatti sporchi e tovaglioli abbandonati alla rinfusa.
Sembrano
i resti di una battaglia, dopo un assalto.
Tre
tavoli oltre, una coppietta si tiene per mano, amoreggiando, isolata dal mondo,
indifferente a chi, come me, soffre per amore.
Lancio
un’occhiata agli sposi in pista, che attirano l’attenzione dei presenti e mi
muovo rapida, afferrando il mio salvagente, per ritornare alla mia postazione
privilegiata.
Mi
accomodo sulla sedia, osservando il liquido dorato scivolare nel bicchiere.
«Non
pensi di aver bevuto abbastanza per stasera?».
La
mano di Davide mi sfila il calice, costringendomi a sollevare lo sguardo su di
lui.
Aggrotto
la fronte crucciata, tornando alla pista da ballo.
Bethany
è tra le braccia del padre e non sembra essersi accorta di noi.
«Cosa
ci fai qui?», chiedo al mio amico, con voce leggermente impastata.
«È
quello che domando a te».
Davide
recupera una sedia, trascinandola vicino al tavolo e occupandola.
«Questo
è il mio matrimonio e tu sei la mia migliore amica», mi rammenta con quelle
iridi come il mare in tempesta.
Mi
lascio cadere contro la spalliera della sedia, scrutandolo da sotto le ciglia.
«Eh?»,
gli domando circospetta.
«E
dovresti divertirti», osserva, spalancando le braccia. «Dovresti ballare,
accettare le attenzioni di qualche mio amico single…».
Si
guarda intorno, come alla ricerca di un papabile, così mi affretto a fermarlo,
poggiandogli una mano sul braccio, cercando i suoi occhi.
«Non
ho bisogno di un Cupido», gli assicuro a scanso di equivoci. «Sono sola, perché
voglio stare sola».
«Ok!».
Davide
si raddrizza sulla sedia, abbozzando un sorriso.
«Se
è questo che vuoi…».
Reclina
leggermente il capo, osservandomi di traverso, con uno strano sorrisetto sulle
labbra.
«Non
accetteresti nemmeno un invito da parte dello sposo?», mi domanda con il suo
irresistibile sorriso sbilenco, che mi torce le budella.
Sento
una strana sensazione pervadermi tutto il corpo, la solita quando lui mi guarda
così, e, sbuffando, mi alzo.
«Va
bene», gli concedo, facendogli pesare la mia concessione. «Sappi, però, che la
tua amata mogliettina ha scelto delle scarpe scomodissime per noi damigelle e
ho i piedi che mi fanno un male terribile».
Mi
scosto una ciocca di capelli scuri che si è sfilata dalla sofisticata
acconciatura, e raddrizzo la schiena consapevole che presto gli occhi di tutti
saranno su di noi.
«Vorresti
farmi credere che sei meno ubriaca della sera del mio addio al celibato?», mi
domanda a un tratto Davide, afferrandomi una mano, con un’espressione divertita.
Sento
il rossore imporporarmi le guance, ma gli reggo il gioco.
«Ti
ricordo che uscendo dalla torta non avevo i tacchi», gli strizzo un occhio.
«Sì,
in effetti indossavi solo uno striminzito tanga bianco sotto un’infinità di veli…»,
mi rammenta tra il serio e il faceto.
Mi
mordo un labbro, rimangiandomi le parole che si sono affacciate alla mia mente.
«È
stata un’idea dei tuoi amici», gli faccio notare. «Gli stessi che mi hanno
abbandonato al tavolo per dedicarsi alle altre damigelle».
«Bugiarda».
Davide scuote il capo, ridendo. «Gabriel mi ha detto che ti hanno pregato di
unirti a loro, ma tu hai preferito restare ancorata al tavolo, rifiutando tutte
le loro proposte».
«Sì,
può essere», riconosco, di cattivo umore.
Cosa
c’è da festeggiare, se il tuo cuore è triste?
«Comunque,
quella sera hai rischiato di farmi venire un infarto», mi confessa il mio amore
impossibile, afferrandomi una mano e abbassando la voce.
Mi
volto a guardarlo, incerta.
C’è
uno strano scintillio in quelle iridi scure, mentre mi dice:
«Ho
sognato per anni di vederti nuda, ma non pensavo certo che il desiderio si
sarebbe realizzato il giorno del mio addio al celibato!».
Mi
strizza un occhio ed io sento la mia bocca schiudersi incredula, mentre mi
passano davanti le immagini salienti di quella serata tra uomini che sfuma
progressivamente nei fumi dell’alcol, fino al mio risveglio in albergo,
abbracciata a un cuscino.
Scuoto
il capo, cercando di darmi un contegno.
«Davide
Innocenti, ti ricordo che sei sposato», lo bacchetto, con il cuore al vento.
«Da poco, ma sei sposato».
***
Davide
«Già,
sono sposato!», farfuglio, controllando l’orologio. «Per essere precisi da quattro
ore, ventisei minuti e dieci secondi».
«Abbastanza
da provarci con me?», mi domanda, scherzosa, appoggiandomi confidenzialmente la
testa sulla spalla e ridendo.
«Sai
che non smetterei mai di provarci con te, se sapessi di avere una chance», le
ripeto in un gioco consolidato, per tornare serio, scuotendo lievemente il capo
e osservando:
«Bethany è perfetta per me. È la mia donna
ideale», le confido, baciandole il capo.
«Sì,
lo so», riconosce di cattivo umore. «Bionda, con gli occhi azzurri, bella come
poche, raffinata e con un padre avvocato», scandisce con una strana nota nella
voce.
«Pensavo
ti piacesse Bethany!», osservo, crucciato. «Hai persino accettato di farle da
damigella d’onore».
«Solo
per non dargliela vinta», chiarisce con un certo astio che mi fa corrugare la
fronte.
«Cosa
stai cercando di dirmi?».
«Davide!».
Si arresta all’improvviso, a pochi passi dalla pista da ballo, afferrandomi una
mano e guardandosi intorno, come alla ricerca di un angolo dove poter parlare
in santa pace.
La
sospingo dietro un pilastro, dove dei camerieri hanno allestito un tavolo con
piatti e posate pulite, di spalle alla pista da ballo, per proseguire lungo un
corridoio che conduce alle camere.
La
musica si sente soffusa e a parte un paio di camerieri che ci sfiorano
passando, non c’è nessuno.
«Allora?»,
la incalzo.
«Tua
moglie non mi sopporta», sbotta, tremando leggermente, con gli occhi lucidi.
«Se potesse impacchettarmi e rispedirmi in Trentino lo farebbe molto
volentieri».
«Non
dire sciocchezze», scuoto il capo, carezzandole un braccio. «Bethany può
sembrare fredda all’apparenza, ma non lo è…».
«Questo
è quello che vuoi credere tu», solleva il mento a modo di sfida. «Ma per come
la vedo io, la tua cara mogliettina farà di tutto per impedire alla nostra
amicizia di continuare, dopo il ritorno dal viaggio di nozze».
«No,
non Bethany!», mi sciolgo in una risata. «Bethany sa quanto sei importante per
me», le assicuro. «Insomma, sa benissimo che siamo cresciuti insieme e che sei
tutto quello che mi resta della mia famiglia italiana».
Alice
serra le labbra, osservandomi triste.
«Spero
di cuore di sbagliarmi», si piega nelle spalle. «Purtroppo, però, difficilmente
perdo un colpo».
«Questa
volta ti sbagli», insisto con tono duro. «Non succederà, vedrai».
Capitolo 1
Londra,
dieci anni dopo
Davide
Anche
la City, con l’avvicinarsi del Natale, subisce il fascino della tradizione.
Nelle strade illuminate, nei locali affollati e nei negozi addobbati a festa si
respira aria natalizia, e tra grossi uomini vestiti di rosso agli angoli della
strada e musiche a tema, buona parte di dicembre è volata senza quasi che me ne
accorgessi.
Dieci
giorni a Natale, ma quest’anno tutto sarà diverso.
Faccio
una smorfia, trascinandomi dietro la mia ventiquattrore, entrando nel palazzo
di vetro, a pochi passi dal Tower Bridge, dove ha sede il mio ufficio,
all’interno della William & Wright,
lo studio legale di famiglia.
Sollevo
una mano, ricambiando il saluto del portiere, e procedo spedito fino
all’ascensore.
Dovrei
abituarmi a pensare a Edward come il mio ex suocero, ma lavorare negli stessi
spazi di quando frequentavo sua figlia mi crea ancora qualche confusione.
Pigio
il pulsante al venticinquesimo piano e stringo la mano a uno degli apprendisti
che si sono uniti a noi di recente, tornando con la mente alla mia nuova
giornata lavorativa.
Nelle
ultime settimane ho consumato gli occhi sulla documentazione che la Turner mi
ha fatto pervenire e credo di essere riuscito a trovare un cavillo che eviterà
alla società di sobbarcarsi un risarcimento milionario.
Un
bel risultato che porterà lustro all’intero studio e non solo a me, che
comunque negli ultimi anni sono riuscito a costruirmi una reputazione di tutto
rispetto, che mi consentirebbe di vendere le mie quote per creare qualcosa di
mio.
Anche
su questo rifletto da tempo, ma per quanto mi sforzi, non l’ho ancora fatto.
Eppure
so che continuare a lavorare ogni giorno fianco a fianco con Bethany non fa
bene né a me né a lei.
Il
problema è Edward. Dopo la perdita dei miei genitori è stato come un padre per
me e lasciarlo, per lavorare in proprio, mi sembra un po’ come tradirlo.
Stupidi
retaggi di un’educazione nostalgica e sentimentale che mi tarpano le ali.
Le
porte dell’ascensore si aprono e Robert mi fa cenno di passare.
Lo
assecondo, varcando l’ingresso in vetro della William & Wright.
Sorrido al familiare ticchettino delle dita sulle tastiere dei computer.
Se
non fosse per il grosso albero di Natale, che ho scorto di lato alla porta, in
questo posto nessuno direbbe che manca una manciata di giorni a Natale. C’è un
mormorio sommesso di teste chine su dei fogli che si scambiano pareri tra loro,
alternandosi ad altri che misurano a grandi falcate i trenta metri quadrati della
sala d’aspetto.
«Avvocato
Innocenti», la praticante di Edward, una biondina niente male, dai lunghi capelli
ricci e un fisico da pin up, avanza dalla porta sul fondo, dove sono dislocati
gli uffici dei soci, tra cui anche il mio, stringendo al petto un plico che
custodisce i segreti di uno dei tanti casi che seguo con lo studio associato.
«Buongiorno,
Bridget», la saluto, distrattamente, proseguendo fino al mio ufficio.
«Avvocato».
La
voce melodiosa della segretaria mi arresta a pochi passi da lei.
«L’avvocato
William vorrebbe parlarle», mi avvisa.
Arriccio
la bocca pensieroso.
Quando
ciò accade, di solito, c’entra sempre la mia adorata ex moglie.
Sospiro
rassegnato. Probabilmente vuole parlarmi di qualche questione legata a Bethany
e visto che sua figlia non si degna di alzare il telefono, come al solito, sarà
paparino a risolvere tutto.
«È
in ufficio?», domando alla biondina, deciso a strapparmi quanto prima il dente dolente.
«Sì,
ha un appuntamento a breve, ma se si affretta, forse riesce a parlargli prima».
«Grazie»,
mormoro di rimando, procedendo lungo il corridoio di stanze, fino a quella sul
fondo.
La
porta è aperta, ma prima di accedervi, faccio capolino in quella accanto, dove
scorgo July, una brunetta dai capelli corti e un paio di pesanti occhiali sul
naso, che, appena mi vede, si porta un dito alla montatura facendola risalire
in cima al naso, con un breve cenno del capo.
«Avvocato!»,
mi saluta, arrestando le dita sulla tastiera.
«Edward
è impegnato?».
«No,
la sta aspettando».
«Bene»,
sorrido, serrando le labbra.
Istintivamente
mi porto una mano alla cravatta, stringendo il nodo e raddrizzando la schiena.
Allungo
una mano e busso alla porta aperta.
«Sì?».
La
voce proviene dal fondo, come dal bagno che è collegato allo studio di Edward.
«Posso
entrare?», domando, passando in rassegna la grossa scrivania in noce, sulla
quale è disseminata una montagna di carte.
Edward
Williams e la parola ordine non vanno d’accordo.
«Davide!».
La
testa candida di mio suocero fa capolino dal bagno, mentre si asciuga le mani
con un telo di spugna azzurra che riprende i toni dell’arredo.
«Accomodati
pure», mi invita, alzando leggermente la voce. «Arrivo subito», mi annuncia,
per poi dirmi:
«Chiedi
a July di portarti un caffè».
«No,
grazie», rifiuto. «Ne ho appena preso uno», gli spiego, chiudendomi la porta
alle spalle e accomodandomi sulla poltroncina in pelle, sistemata davanti alla
scrivania.
«Allora,
di cosa volevi parlarmi con tanta urgenza?», gli chiedo, appena lo vedo
scivolare dietro la sua postazione in maniche di camicia, sistemandosi i
polsini.
«Davide…»,
solleva lo sguardo nel mio.
Appare
a disagio e non è da lui.
«È
successo qualcosa?», gli domando, accavallando le gambe e affondando i gomiti
nei braccioli della poltrona.
«Problemi
con qualche cliente?».
«No»,
farfuglia, cercando le parole e carezzandosi la barba bianca e ben curata che
gli copre buona parte del mento.
«Nuove
pretese da Bethany?», gli chiedo, sbuffando palesemente annoiato.
Mia
moglie, o meglio la mia ex moglie, si è rivelata una grande delusione e la
colpa, a mio parere, è dei genitori che non hanno mai saputo porre un freno
alle sue pretese di figlia viziata, a cui anch’io mi sono piegato per i primi anni
di matrimonio, fino a quando non ho capito di non poterla più assecondare per
rispetto a me stesso e all’uomo che nonostante tutto sono diventato.
«So
che mia figlia non si è comportata bene nei tuoi confronti, ma…».
«William,
vai al punto», lo liquido con un gesto brusco della mano.
«Dopodomani
partiamo per la Scozia, come tutti gli anni, per trascorrere le festività a
Glasgow, e mi chiedevo…».
Non
lo lascio terminare, scuotendo il capo, risoluto.
«Non
verrò».
William
sbuffa, lasciandosi cadere contro la spalliera della sedia.
«Davide»,
sospira, passandosi stancamente una mano sul volto.
«Non
penserai davvero di mandare a monte un matrimonio di dieci anni per qualcosa
che non conta?».
«Portarsi
a letto un collega, per attirarlo dalla sua parte, in un giudizio che rischiava
di perdere, ti sembra una cosa da poco?», mi costringo a osservare, mantenendo
la calma.
«Conosci,
Bethany!». William si piega nelle spalle. «Detesta perdere».
«E
per vincere non si fa scrupoli a usare qualsiasi arma…». Annuisco, brevemente.
«Non verrò a Glasgow con voi», gli ribadisco.
«Vuoi
metterla alla prova?».
William
scivola sulla scrivania, cercando il mio sguardo.
«Non
c’è alcuna prova da sostenere», gli chiarisco, accavallando una gamba e
dondolandola nervosamente sull’altra. «Il matrimonio è finito», gli chiarisco.
«Resta in piedi solo una collaborazione professionale».
«Davide…».
«Non
farò marcia indietro», gli ribadisco, ostinato.
«D’accordo!».
Mio
suocero alza le mani in segno di resa, osservandomi in silenzio per qualche
istante, prima di arretrare con la sedia girevole, alzandosi in piedi e
voltandomi le spalle, per perdersi con lo sguardo sul paesaggio grigio e fumoso
della City e sugli alti palazzi in vetro, come raccogliendo i pensieri, prima
di dirmi:
«So
che per un uomo, soprattutto un italiano, è difficile accettare un tradimento,
ma Bethany è molto pentita e tu…».
«È
così pentita che ha mandato te a mediare per lei?», lo interrompo.
Edward
si volta di scatto, affondando i suoi occhi grigi nei miei.
«Perché
tu non le rivolgi la parola e insisti per porre fine al vostro matrimonio», si
accalora, battendo una mano sulla scrivania, coperta di documenti.
«La
parola fine al nostro matrimonio l’ha scritta lei, quando ha deciso di usare le
sue arti amatorie per vincere in uno scontro legale con un avversario che nel
foro avrebbe avuto la meglio», gli rammento, ma prima che mi risponda, gli
intimo di non farlo, restando in ascolto.
«Non
so se gli inglesi sono migliori degli italiani, sul fronte corna, ma per quanto
mi riguarda un’unione si basa sulla fiducia e il rispetto. Cose che con Bethany
forse non sono mai esistite».
Mi
alzo, deciso a piantarlo in asso, afferrando la mia ventiquattrore e il
cappotto che mi sono sfilato entrando.
«Ringrazia
Kate per l’invito, ma questo Natale lo trascorrerò a Londra».
Gli
volto le spalle, deciso ad andarmene, ma la voce profonda di William mi
arresta:
«È
la tua ultima parola?».
Giro
lentamente su me stesso, arrestandomi crucciato.
«Cosa
intendi?».
È
chiaro che non si riferisce alle vacanze natalizie ed io non sono un tipo che
ama girare intorno alle cose.
«Se
hai deciso di porre fine al matrimonio con Bethany, la tua presenza qui non è
più gradita», mi comunica, senza mezzi termini.
«Siamo
a questo punto?», gli chiedo, con un sorrisetto amaro.
«Non
mi lasci scelta».
Edward
si piega nelle spalle.
«Tu
e Bethany siete miei soci alla pari, ma come comprenderai, non posso
allontanare mia figlia…».
«Ovviamente»,
riconosco, tornando indietro e adagiando la valigetta sul pavimento, per tornare
con lo sguardo a quell’uomo dall’aria austera e la barba bianca, che per una
parte della mia vita ho considerato come un padre.
«Se
è questa la tua decisione, liquidami la mia parte e, già a metà gennaio, ognuno
potrà proseguire per la propria strada».
«Per
quanto mi riguarda, posso liquidarti domani stesso, e anche il doppio del
valore della tua partecipazione in questo studio, ma a una sola condizione».
«Sarebbe?».
«I
clienti dello studio restano alla William & Wright».
Una
risata mi sgorga incontrollata dalle labbra, mentre osservo mio suocero con
aria divertita.
«Stai
scherzando, vero?».
«Affatto»,
mi chiarisce.
Serro
le labbra arricciandole pensieroso, riconoscendo:
«La
tua richiesta avrebbe senso, se lavorassimo tutti nello stesso ramo, ma io mi
sono occupato fin dall’inizio di diritto internazionale e questo studio, fino
al mio arrivo, non aveva mai trattato cause del genere...». Scrollo le spalle.
«Dunque, è da escludere che io rinunci a seguire i miei clienti, per
permetterti di trovare un sostituto con cui assicurarti un introito su cause di
non tua spettanza».
«Davide,
non rendiamo ancora più spiacevole questa conversazione».
Edward
infila le mani in tasca, osservandomi di sottecchi.
«Per
quanto mi riguarda, sei ancora il mio genero preferito e sono convinto che la
crisi matrimoniale tra te e Bethany si possa risolvere, ma se così non fosse,
tu andrai via, lasciando i clienti dello studio a noi».
«Puoi
scordartelo», serro i denti, recuperando la mia ventiquattrore. «Se vado via, i
miei clienti saranno liberi di seguirmi».
«Non
pensavo fossi così ingrato». Edward scuote il capo. «Devo ricordarti chi eri,
quando sei approdato in questo studio legale?».
«Non
serve», gli assicuro, serrando i denti. «So perfettamente che quando mi hai
accolto in questo studio non ero nessuno e con i mezzi a mia disposizione avrei
sicuramente faticato ad avviare uno studio tutto mio, ma in questi anni è stata
la mia professionalità a garantire una continuità di rapporto con le aziende
che rappresentiamo».
«Davide,
pensaci!».
La
voce di Edward s’incrina, come se fosse sinceramente dispiaciuto per la piega
che sta prendendo la nostra conversazione.
«Riparliamone,
dopo le festività…». Mi sorride appena. «Chissà che queste vacanze non ci schiariscano
le idee…».
Sì,
forse ha ragione.
Ho
bisogno di tempo per pensare e per capire in che direzione andare. Dunque, rispondergli
adesso potrebbe essere controproducente, così annuisco, voltandogli le spalle e
marciando fuori da quello studio, dove comincia a mancarmi l’aria.