Per la rubrica "Un capitolo del mio libro" oggi vi propongo "Uno sbaglio chiamato amore", un New Adult che mi ha dato qualche soddisfazione.
Questa la trama:
Leo Mancini è uno che i problemi non li cerca, li attira.
Bocciato al quinto liceo a Milano, si trasferisce a Roma per volere dei genitori, ma quando il padre gli comunica che a sorvegliarlo ci sarà una di quelle...
Davvero qualcuno cede al fascino del bello e dannato?
Martina fila dritto o almeno ci prova, ma quando il fidanzato della madre, che è finalmente un tipo serio e affidabile, le chiede di tallonare suo figlio...
Le maestrine del cazzo, che fingono di sapere tutto della vita, Leo non le sopporta. Sono sempre pronte a salire sul pulpito per sputare sentenze, salvo poi rimangiarsi tutto alla prima cotta, ma per sua fortuna tanta virtù si concentra spesso in tipe poco fighe e a lui le ragazze piacciono belle.
Chi ha detto che la secchiona della classe debba essere anche cessa?
Leo Mancini ha trovato pane per i suoi denti! Il segreto, con i tipi come lui, è: mai lasciarci il cuore.
Prologo
«Ragazze, oggi è il giorno più bello della mia vita!».
Mia madre entra nella camera che divido con mia sorella, spalancando la porta e accendendo la luce.
Stringo gli occhi, faticando ad aprirli.
Che ore sono? Credo di essermi addormentata da poco, ma forse mi sbaglio.
«Mamma!!!», brontola mia sorella, nel letto a castello sotto il mio. «È notte!».
Ecco! Non era solo una mia impressione. Ci siamo addormentate prima che Jessica tornasse dal suo appuntamento. Mi copro il volto con le mani, cercando di mettere a fuoco la situazione.
«Oh, ragazze, sono le due», geme la sciagurata genitrice. «Buonanotte!».
Gira sui tacchi, ma non la lascio tornare nella sua stanza.
«Immagino sia andato tutto bene», rilancio, decidendomi a scivolare fuori dal piumone, per permettere all’adrenalina di mia madre di avere una giusta soddisfazione.
«Sì, è andato tutto bene, ma ne parliamo domani».
La sento armeggiare con la borsetta, mentre recupero gli occhiali da vista, riposti sulla mensola, per inforcarli.
Indossa ancora l’abito da sera che Vittoria le ha aiutato a scegliere, ma il rossetto è sparito dalle labbra e i capelli non sono più acconciati come ricordavo.
«Lo rivedrai?», le domando, schiarendomi la voce.
Jessica si arresta di spalle, girando lentamente su se stessa, con uno strano luccichio negli occhi, ma poi il suo sguardo si abbassa su mia sorella e con voce leggermente roca, mi dice:
«Vieni in salotto».
Provo a farlo, ma Vittoria si oppone.
«Non penserai davvero di escludermi da queste confessioni notturne, ora?».
«Hai ragione!».
Jessica rinuncia a ogni remora, facendomi cenno di raggiungerla, per sistemarci tutte sul lettino di mia sorella.
«Si chiama Paolo. È di Biella, ma da cinque anni è stato trasferito a Roma».
«Quanti anni ha?», domando a mia madre che, prima di rispondermi, passa da me a mia sorella, facendomi fremere per la paura.
L’ultimo aveva quindici anni meno di lei e se consideriamo che nostra madre non ne ha ancora quaranta…
«Cinquantotto», scandisce con una certa soddisfazione.
«Come lo hai conosciuto?», s’interessa Vittoria, arrotolando i lunghi capelli biondi dietro la nuca, ed io cerco di non fissarmi, ancora una volta, su quanto mi senta fuori da questa famiglia.
Insomma, da una madre bionda con gli occhi azzurri, come posso essere stata generata io, dalla pelle ambrata, i capelli ricci e neri e gli occhi di un blu mare che chissà a chi sono appartenuti?
«L’ho conosciuto in negozio».
«Ci stai dicendo che hai abbordato uno che è venuto a comprare lingerie?», le domando, incapace di non dare voce ai miei pensieri.
Insomma, a una certa ora della notte, controllarsi può essere davvero difficile.
«La lingerie non era per lui».
«Me lo auguro». Vittoria ridacchia, strappandomi un sorriso. «Vendi solo biancheria femminile!», le ricorda.
«Ah, ragazze! Siete davvero impossibili».
Si irrita nostra madre, alzandosi.
«Non ci lascerai proprio sul più bello?».
Vittoria geme, allargando le braccia e Jessica si commuove, avvolgendo anche me.
Ci bacia sul capo e si raddrizza nuovamente, per specificare:
«Paolo era con una collega…».
I miei occhi incrociano quelli di mia sorella, ma nessuna di noi proferisce parola.
«Non siate maliziose. Era una collega. Una vera collega», ci tiene a precisare. «Cercavano qualcosa per il compleanno di un’amica comune; una tipa un po’ eccentrica, e insomma… Per non farla troppo lunga, mi ha lasciato il suo numero di cellulare. Io l’ho chiamato e così…».
«Siete andati a cena insieme», finisco per lei.
«Sì», sospira.
«E com’è?», domanda Vittoria.
«Affascinante, intelligente e simpaticissimo», rispondo al posto di mia madre, che mi guarda truce.
«Lo è davvero!», mi garantisce, ostile.
«Smettila!».
Vittoria mi dà uno schiaffetto.
«Come si chiama?».
«Paolo ed è un cardiologo».
1
Sei mesi dopo
Sulla strada per Roma
«Martina?».
Vittoria mi agita una mano davanti agli occhi, con la testa infilata tra i due seggiolini della Panda di nostra madre, cercando di attirare la mia attenzione.
Sbuffo, rinunciando ad ascoltare l’ultimo pezzo di Mahmood, per sfilarmi dalle orecchie le cuffiette e capire cosa possa essere successo ora.
Ho guidato per quasi due ore, sull’autostrada che collega Napoli a Roma e per essere una fresca patentata me la sono cavata abbastanza bene.
Ora spetta a mia madre fare la sua parte.
È lei che ha passato gli ultimi due fine settimana in quella che, a suo dire, sarà la nostra nuova casa.
Dunque, guardo con palese sopportazione la mia bionda sorella, per notare ancora una volta quanto le stia bene il suo nuovo taglio: un caschetto corto sulla nuca e lungo sul viso, che le sfiora le spalle abbronzate.
Mi porto una mano alla mia criniera di riccioli scuri. Domarli è un’impresa ardua. Così mi sono rassegnata a portarli lunghi, ma con il caldo li tengo sempre legati e neanche le raccomandazioni di mia madre, di vestirmi come una signorina che sta per andare a vivere all’Olgiata, mi hanno fatto rinunciare alla crocchia dietro il capo.
«Martina!», ripete ancora Vittoria e questa volta anche mia madre si unisce a lei.
Sollevo gli occhi al tettuccio dell’auto, per poi alzare la voce:
«Cosa c’è?».
«Ci siamo perse», mi informa Jessica, con una nota allarmata nella voce.
«Com’è possibile?», le domando, crucciata, guardandomi intorno.
In effetti, l’Olgiata, per quello che ho visto in rete, è un po’ la Beverly Hills nostrana, con un succedersi di ville milionarie, strade ben tenute e spazi verdi che sembrano finti.
Intorno a noi, invece, scorgo solo cemento e costruzioni di provincia.
Provo a girarmi, stretta tra valigie e borsoni, sistemati sul sedile posteriore dell’auto, dove mi sono riservata un piccolo spazio per me.
Niente. Anche alle nostre spalle il paesaggio non cambia.
Come ho fatto a fidarmi di mia madre?
«Il navigatore?», domando, cercando di non perdere la calma.
«Non funziona», geme Jessica, in preda a una crisi di nervi.
«Ok!», alzo la voce, cercando di placare una delle scenate isteriche di mia madre. «Accosta alla strada», le dico, lanciando uno sguardo a mia sorella che mi osserva rassegnata.
Mai che vada tutto come previsto.
È un classico per noi.
«Accosto», si ripete Jessica, lasciando passare un’auto, per poi fare quanto le ho chiesto.
«Lo sapevo che venire con la nostra auto non sarebbe stata una buona idea», bofonchia, tirando il freno a mano.
«Invece è stata un’ottima idea», le assicuro, scivolando fuori dal veicolo, per guardarmi intorno, alla ricerca di qualche elemento che mi faccia capire dove siamo finite.
«Ci siamo perse?».
Vittoria mi affianca, con aria avvilita.
«Risolviamo. Non preoccuparti», la rassicuro.
«Come?».
Mia madre, pantaloncini bianchi e canotta Armani, mi raggiunge, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
Vorrei ricordarle che tra noi due sono io la figlia, ma sarebbe un discorso inutile e unidirezionale.
Jessica è fatta così: prendere o lasciare.
Vive costantemente con la testa tra le nuvole e devo riconoscere che Paolo Mancini è l’uomo giusto per lei: solido, concreto, affidabile e ricco.
Non avrebbe potuto trovare di meglio e rischia di non raggiungerlo mai.
«Vado a bussare a quelle case sul fondo».
«Sei impazzita?».
Vittoria mi trattiene.
«Non sappiamo chi sono».
«Sì, non lo sappiamo, ma dubito siano dei rapinatori».
«Vengo con te».
Si offre la mia coraggiosa sorella, ma la nostra genitrice, in un moto di orgoglio, mi scansa, per chiarirci:
«Voi restate qui. Ci vado io».
«Lo ha detto davvero?», mi domanda mia sorella, mentre io osservo la donna che ci ha messo al mondo procedere, dondolante, su dei sandali tacco dodici, lungo la strada pianeggiante, fino al cancello che ho scorto sulla destra, con le spalle dritte e i capelli corti e biondi, leggermente arruffati.
Non faccio in tempo ad avvisarla che le dita laccate di rosso di Jessica affondano tra quei fili d’oro, cercando di mettere ordine.
«Sempre sul pezzo», ridacchia Vittoria che, diversamente da me, può contare sempre su suo padre.
«Sicura di non voler restare a Napoli con Fabrizio?».
«E lasciare a te la villa con la piscina?».
La degna figlia di nostra madre mi scaraventa sul petto il suo zaino, affrettandosi a seguire Jessica.
Nessun commento:
Posta un commento