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lunedì 25 febbraio 2019

Il tuo bacio tra mille iniziamo insieme...


 Quando dai sogni si passa alla realtà a volte l'amore è meno scontato di quanto si immagini... Ne sa qualcosa Federica che se da ragazzina sognava di conoscere e baciare il re del pop latino, Pablo Echevarría, da adulta farebbe qualsiasi cosa per evitarlo, mettendo a rischio anche la carriera, pur di salvare il cuore.



 

 Prefazione




Undici anni prima

Città del Messico, Foro Sol

«Merda!», si morse un labbro.
Quella sera non era dell’umore adatto. 
Era stata una giornata lunga e faticosa, a conclusione della quale aveva anche litigato con i suoi.
Sbatté, con un gesto di stizza, la porta del camerino, passandosi nervosamente le mani tra i capelli. Scivolò a sedere davanti al tavolo per il trucco e sbuffando si diede uno sguardo allo specchio.
L’immagine che gli restituiva non era affatto male: pelle ambrata, liscia e fresca, sbarbata da poco, occhi verdi messi in risalto da folte e lunghe ciglia nere e capelli corvini che gli sfioravano il colletto. Fece una smorfia, scivolando sulla poltrona. Le ore di palestra e la corsa mattutina gli permettevano di sfoggiare un fisico asciutto e muscoloso, che insieme alla voce calda e leggermente roca lo avevano consacrato come uno dei cantanti più famosi dell'America Latina, pronto per sbarcare anche in Europa. Il suo manager aveva contatti con la Spagna e, con un poco di fortuna, la grande scalata del Vecchio Continente sarebbe stata possibile.
La sua famiglia avrebbe dovuto appoggiarlo. Anzi avrebbe dovuto essere orgogliosa del suo lavoro e dei risultati raggiunti in così pochi anni. Il suo era un talento vero. La stampa e gli addetti ai lavori non facevano che riconoscerlo, ma, per i Gutiérrez, Pablo era e restava la pecora nera della famiglia. Suo padre non aveva voluto neppure che usasse il loro cognome e così era diventato Pablo Echevarría.
Solo sua madre, Amparo, lo sosteneva. Doveva a lei gli studi nel campo musicale.
Non voleva pensare a quella povera donna vessata dal marito e dai restanti due fratelli. Sfortunatamente non aveva sorelle e sua madre era l’unica figura femminile nella famiglia di imprenditori. Muoversi in quell’universo di caproni insensibili non era impresa semplice.
Non che il mondo della musica si potesse definire dolce e delicato, soprattutto a quei livelli, ma la sensibilità tipica degli artisti l’aveva ereditata da sua madre e gli spiaceva non potersela portare dietro. Aveva provato a farlo, ma suo padre si era opposto con tutte le sue forze. Amparo era, prima di essere sua madre, sua moglie e il suo dovere era prendersi cura di lui e della sua famiglia. Non le avrebbe certo permesso di girare il mondo al seguito di quell’oggetto sessuale, che per eccitare le donne si sbatteva su un palco dando voce alle note.
Per Francisco Gutiérrez l’unica musica degna di tale nome era quella della tradizione. Tutto il resto era spazzatura.
Si passò una mano sul volto, stancamente. Inutile fargli notare che proprio grazie a quel cambio di registro era riuscito a espatriare. Parlare con suo padre era impossibile e alla fine vi aveva rinunciato. Purtroppo non poteva tagliare i ponti definitivamente con lui, perché questo avrebbe significato spezzare il cuore di sua madre, a cui lui invece era molto legato.
"Pablo, mi raccomando stai lontano dalla droga e non andare con donne che non conosci bene. Portano malattie", rievocò.
Un sorriso gli piegò le labbra. Glielo ripeteva ogni volta e lui le rispondeva di non preoccuparsi, anche se non la ascoltava.
Da qualche tempo aveva preso l’abitudine di sniffare, solo di tanto in tanto. Poca roba, per reggere i ritmi a volte vorticosi e per quanto riguardava le donne, non ne aveva mai una fissa. Era facile trovare qualcuna disponibile, con cui passare una o più notti. Non duravano più di tanto. Si annoiava presto. Inoltre non si fermava mai in un posto più di una settimana.
 L’unica regola impostagli da Fernando Gonzalez era di tenere a bada le fan. Consentito intrattenersi a scattare foto, scambiare baci e abbracci a favore di camera, ma mai nulla di minimamente confondibile con un atto sessuale. Neanche i baci con la lingua erano consentiti, anche se poi a ogni concerto gli organizzava un incontro sul palco con qualche ammiratrice, che gli saltava addosso in preda a una crisi isterica.
«Pablito, ce l’hai fatta!».
Come evocato dai suoi pensieri Fernando entrò come un tornado, senza nemmeno bussare.
 I due energumeni che sostavano fuori dalla porta lo avevano lasciato entrare, riconoscendolo dalla sua mole maestosa. Alto un metro e novanta, pesava due quintali, almeno a giudicare dall’aspetto. Stringeva in un angolo della bocca un sigaro cubano e strizzava gli occhi piccoli e infossati, inspirando il fumo.
«Non chiamarmi in quel modo. Lo detesto», gli ricordò.
Il sopracciglio folto s’incurvò qualche istante, prima di distendersi nuovamente. Fece strusciare sul pavimento una sedia, accomodandosi.
«Hai ragione», annuì con il capo, come quando contava l’incasso della serata e gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa. «Ci sono circa cinquantamila spettatori fuori e sono qui tutti per te».
Pablo si piegò nelle spalle.
«Sai che novità», sbuffò, contrariato, aggiungendo: «Ma dove si è cacciata Francisca? Non doveva portarmi gli abiti di scena?», fece scorrere lo sguardo sulla maglietta di cotone e i jeans sbiaditi.
«Eccomi!», esclamò la donna, entrando di corsa. Piccola e tondetta, aveva il tipico aspetto messicano. Si mosse sicura in quello stanzino, sistemando l'involucro che si trascinava dietro.
«Speriamo che questa sera la fan di turno non ti strappi la camicia», depositò il suo carico su una sedia. Abbassò la cerniera e ne tirò fuori il completo di pelle, per infilarlo alla gruccia sul carrello con gli altri abiti.
Finse di ignorarla, chiamando a raccolta quello che sulla carta era il suo manager.
«Altre disposizioni per stasera?».
L’uomo, che si era perso nelle forme generose della costumista, tornò a lui, sollevando le spalle.
«Sì, certo», sorrise in modo irritante. «Il Foro Sol è quasi al completo».
«Me lo hai già detto, ma continui a ronzarmi intorno e questo mi lascia pensare che tu abbia altre motivazioni».
«Hai ragione», replicò l’uomo, tornando con lo sguardo a lui. «Ti ho promesso che non ti organizzavo più incontri con le fan sul palco…», esordì.
Pablo inspirò profondamente, cercando di mordersi la lingua. Strinse i denti e respirò con il naso, come un toro inferocito.
«Un altro completo rovinato», sospirò affranta la donna, sparendo dietro la porta.
Si lasciò ricadere sulla poltroncina, senza fare una piega, rigirandosi apaticamente il cellulare tra le mani.
Fernando si sporse sulla punta della sedia, allungando la mano sulla sua spalla.
«Pablo, è solo spettacolo. Che ti costa?», gli chiese, preoccupato.
Fiumi di soldi passavano dall’uno all’altro e la defezione di uno avrebbe comportato una grave perdita per entrambi. «Ė la figlia di un diplomatico, molto amico di mio fratello. Non mi potevo rifiutare».
Il cantante scostò quella mano sudata dalla sua clavicola, con un gesto brusco.
«Devo cambiarmi. Tra meno di mezz’ora inizia lo spettacolo», gli ricordò, sfilandosi la canotta di cotone, per infilarsi in bagno. Sentì l’uomo borbottare, avviandosi verso l’uscita, ma prima che si richiudesse la porta alle spalle, tornò sui suoi passi.
«Lo farai?», gli chiese speranzoso. Infilò una mano nel giubbino e ne tirò fuori un biglietto. «Oggi compie quindici anni e tra il tuo concerto e una faraonica festa, ha scelto te. Dovresti esserne lusingato».
«Come, no?», sollevò gli occhi al cielo esasperato. «Quante volte vi devo dire che non voglio più fare la parte del cretino che si spupazza le ammiratrici sul palco? L’ultima mi si è attaccata addosso come una ventosa e per liberarmene ho dovuto faticare sette camicie. Senza contare che piangono come fontane, non spiccicano parola e sembrano sul punto di morire per infarto. Dio me ne liberi! Stasera poi non sono proprio dell’umore adatto».
Fernando annuì ancora, come se approvasse ogni singola parola, salvo poi, precisare:
«Questa però non puoi rifiutarti di incontrarla».
«E chi lo dice?», si poggiò un asciugamano intorno al collo, addossandosi allo stante della porta. «Fino a prova contraria, la star dello spettacolo sono io e, se mi rifiuto di salire sul palco, i ragazzi dovranno inventarsi qualcosa, suonando senza cantante per due ore e, anche se non ho dubbi sulla loro capacità di reggere, difficilmente riuscirete a frenare le proteste dei cinquantamila venuti ad ascoltarmi. Quindi, posso oppormi», assicurò, annoiato. «Vi ho assecondato una volta, ma questa idea di prendere una ragazza dal pubblico per cantare con lei al mio fianco, non funziona».
«A ognuno il suo lavoro», cercò di farlo ragionare l’uomo, conciliante. «Quelle ragazzine nei primi posti aspettano sotto il sole da questa mattina, con la speranza di essere scelte per uno sguardo e sì, l’ultima volta la tipa era piuttosto focosa e ti ha baciato davanti a tutti, ma l’effetto è stato devastante sul pubblico e anche i giornali ne hanno parlato per giorni». Fernando si passò una mano tra i capelli che gli coprivano le orecchie. «Fidati! Basta un buffetto e quattro moine. L’ambasciatore italiano sarà contento e noi ci portiamo il risultato a casa».
«L’ambasciatore italiano?», chiese, sperando di non aver capito bene, ma Fernando annuì sornione.
«Sì. Figlia unica. Adorata e viziata. Devo accontentare mio fratello. Ce ne prenderemo cura noi. A te spetta solo la parte sul palco. Un piccolo sacrificio per un grande risultato. Dicono che sia una ragazzina a modo. Non ti darà grane», fece il gesto dei soldi.
«Ė l’ultima volta».
«Certo», esclamò l’altro, per nulla convinto.
«Indossa una maglietta rossa e un jeans scolorito», gli spiegò soddisfatto, aggiungendo: «Non ti puoi sbagliare. Ci sarà uno dei nostri vicino».
Pablo roteò gli occhi al cielo.
E poi dicevano che la vita dei musicisti era una pacchia.

♫♫♫


Federica non riusciva a contenere l’emozione. Suo padre le aveva regalato i biglietti per il concerto di Pablo Echevarría per i suoi quindici anni. In verità, i suoi le avevano chiesto se desiderava organizzare una festa, come tutte le sue amichette, seguendo la tradizione messicana della quinceañera, ma lei aveva rinunciato. Non aveva tante amiche e i compagni di scuola erano così spocchiosi da non meritare la sua attenzione.
Il caso aveva voluto che proprio quel giorno al Foro Sol si sarebbe tenuta l’unica tappa del concerto di Pablo in città e lei non intendeva perderselo. Se volevano dunque farla felice avrebbero potuto procurarle i biglietti. Lei e Veronica avevano provato ad acquistarli, ma erano andati esauriti nel giro di poche ore. Si era quasi rassegnata, quando suo padre aveva bussato alla sua cameretta, mostrandole i due cimeli.
«Papi!», incredula aveva sgranato gli occhi di un intenso azzurro, eccitatissima.
«Non mi merito un bacio?», le aveva chiesto il suo papone, ricevendo un abbraccio affettuoso e così, il giorno precedente, lei e Veronica si erano organizzate per arrivare in tempo, per scoprire, infine, che non sarebbe stato affatto necessario passare le ore sotto il sole, in attesa dell’inizio del concerto, perché, grazie a un amico di suo padre, sarebbero potute comodamente arrivare un'ora prima dell’inizio dello spettacolo, contattandolo telefonicamente.
Aveva pensato a tutto il suo supereroe, facendole accompagnare dal suo autista, avvisando il suo amico.
Miguel Diaz era uno dei tecnici del suono. Apparve da un’entrata laterale allo stadio, dove una folla era in fila: un signore sui trenta, vestito semplicemente, che le aveva riconosciute dall’auto blindata.
«La signorina Bocci?», le chiese, mentre il vetro si abbassava.
«Sì», annuì euforica, stringendo la mano di una non meno emozionata Veronica.
«Venite con me», aprì la portiera, facendo strada.
Arrancarono al suo seguito, per essere infilate in una nuova macchina, percorrendo il tratto che dall’entrata le conduceva dietro al palco. Con il naso schiacciato contro il vetro passava in rassegna le roulotte e i camion ai margini.
«Lui è già arrivato?», si spinse a chiedere a un Miguel piuttosto taciturno.
L’uomo sorrise appena, permettendo al suo cuore di tornare a battere regolarmente, mentre scalava la marcia.
«Sì. Ė al trucco», le rispose.
«Al trucco?», esclamarono all’unisono le due amiche turbate.
«Sì», annuì divertito il loro accompagnatore. Con la coda dell’occhio scorse la loro espressione contrariata e spiegò: «Ci sarà anche la televisione stasera e senza trucco il vostro bel Pablo non risulterebbe al meglio».
«Ma lui non ne ha bisogno!», lo difese con enfasi. «Ė bellissimo di suo».
«Certo», commentò l’altro poco convinto, rallentando l’andatura della vettura fino a fermarsi.
Con un balzo scese dall’auto per aprire loro le portiere.
Federica affondò le scarpe di ginnastica nella polvere, sistemandosi sulle spalle lo zainetto nero, attendendo Veronica che, più bassa di lei, si aggrappò alla sua mano, seguendo in silenzio Miguel Diaz. Lo scorsero fermarsi a parlare con un gruppetto di uomini, che lavoravano con dei cavi. Si guardò intorno.
La struttura in acciaio era maestosa, tanto da fare paura. Crucciata, si accorse che l’uomo era tornato da loro, facendole cenno di seguirlo.
Passarono lateralmente alla struttura fino a vedere il maestoso stadio che all’imbrunire si popolava di teste colorate e chiassose. Era la prima volta che si trovava in un posto come quello e lo faceva dal lato opposto agli spalti.
«Fate attenzione a dove mettete i piedi», le avvisò Diaz, scambiandosi segni d’intesa con alcuni colleghi.
Erano giunte, senza accorgersene, sotto il palco e a pochi metri iniziavano le prime transenne, per contenere il pubblico festante. Il brusio generale stava diventando assordante. Rafforzò la stretta alla mano di Veronica, che la ricambiò addossandosi a lei. Sollevò il capo con il cuore in gola.
Riusciva a vedere poco da lì sotto, ma il sapere che, a breve, lui sarebbe apparso la faceva tremare dalla testa ai piedi per l’emozione.
Diaz recuperò degli scranni e li sistemò tra le prime file, dove a seguire erano state collocate nuove transenne, con una schiera di uomini alti e grossi, che portavano alle orecchie degli auricolari. Tornò da loro, seguito da una donna, che sembrava una coetanea. Una signora bionda, con fluenti capelli che le sfioravano le spalle e luminosi occhi azzurri, che spiccavano tra tutte quelle carnagioni scure. All’altezza del seno aveva un cartellino, con il suo nome e il ruolo, ma non riusciva a leggerlo bene.
«Benvenute!», le salutò, allungando una mano. «Io sono Patricia. Faccio parte dell’organizzazione e stasera sarò la vostra ombra, per accertarmi che non vi succeda nulla».
«Buonasera», la salutò, guardandosi intorno, prima di chiederle: «Dove possiamo metterci, per essere certe di vederlo bene?».
«Venite», le accompagnò tra le prime barriere, dove Miguel aveva sistemato gli scranni.
Si accorse che anche altre persone si erano sedute nel frattempo e si affrettò a prendere posto, temendo che la costringessero ad arretrare. Veronica la seguì in silenzio, con il naso in aria e la bocca aperta. Non aveva mai partecipato a un concerto, come lei, e tutto era nuovo e stupefacente.
Patricia si piegò sulle ginocchia, tirando fuori da un borsello due pass che appuntò sulle loro magliette.
«Non dovrete allontanarvi da qui», le informò, addolcendo l’espressione seria, quando si accorse della loro apprensione. «Qui siete al sicuro», sollevò il capo oltre le loro teste, con un sorriso. «Li vedete quei signori?».
Annuirono all’unisono e lei approvò entusiasta. «Sono guardie del corpo che impediscono al pubblico di superare le transenne. Io sarò sempre nei paraggi, ma quando arriverà Pablo ci sarà un po’ di trambusto e voi dovrete restare ferme qui, per non rischiare di perdervi. Nel caso dovesse succedere, tornate sotto il palco e ci ritroveremo facilmente. Capito?».
«Certo», rispose sicura.
«Ok», approvò la bionda, poggiandole una mano sul capo, come se si trattasse di un bambino da rabbonire. Avrebbe voluto farle notare che quel giorno compiva quindici anni, ma dal palco giungevano i primi strimpelli ed era troppo presa per continuare quella conversazione.
Con il passare dei minuti, le luci si accesero e progressivamente tutto si dispose all’inizio dello spettacolo. Patricia aveva fornito loro dei cappellini con visiera e una bottiglietta d’acqua, e di tanto in tanto tornava a controllare che stessero bene. Infine sedette al suo fianco e Federica capì che il momento tanto atteso era arrivato.
Le luci si spensero e un boato riempì lo stadio.
Pablo Echevarría fece la sua comparsa sul palco e il suo cuore si fermò qualche istante, riprendendo poi a battere frenetico. Si alzò in piedi per applaudire e lo scorse afferrare con le mani il microfono per salutare il pubblico.
«È un immenso onore per me essere qui in vostra compagnia!».
Era più magro di come appariva sui giornali e in televisione. Aveva dei capelli ancora più neri dei suoi, leggermente ondulati. Alcune ciocche gli sfioravano il collo. Era, come sempre, vestito di nero, con lunghe catene d’argento, che pendevano al collo. Dopo un breve saluto, diede le spalle al pubblico per dare l’attacco ai musicisti e iniziò a cantare i suoi pezzi più famosi.
Veronica e lei, insieme con altre ragazzine poco distanti, si unirono nel terminare le strofe, accompagnandolo a squarciagola. L’indomani non avrebbe più avuto voce, ma non le importava. Era il compleanno più bello della sua vita.
«Hai visto quanto è figo?».
Veronica la tirava per la maglietta, strabuzzando gli occhi neri e lucenti. Era la figlia della cameriera, di un anno più piccola. Frequentavano due istituti diversi, ma finite le ore scolastiche si riunivano per ascoltare la musica o per parlare delle loro passioni comuni: la pallavolo, i cantanti, i film e naturalmente i ragazzi.
Veronica era innamorata di un compagno di scuola, che usciva con una sua amica, mentre lei non aveva occhi che per lui! Sollevò ancora di più il capo e le sembrò di avere le pupille a cuore.
Pablo si muoveva con sicurezza sul palco, invitando il pubblico a cantare con lui e anche se non l’avrebbe mai conosciuto, il suo petto batteva all’impazzata.
Erano arrivati a metà concerto, quando Pablo chiese ai musicisti di cambiare musica. Le luci mutarono e sul palco divenne tutto rosa.
In platea, alle sue spalle, si sentiva un brusio generale, come se ci fosse una grande aspettativa. Sentì le ginocchia tremare. A volte, aveva letto sulle riviste, Pablo sceglieva tra il pubblico una fan e scendendo dal palco le si avvicinava, invitandola a salire sulla scena con lui. Non accadeva sempre, ma le ragazze facevano a gara per occupare i primi posti, dietro le transenne, e grazie all’amico di suo padre, anche lei e Veronica erano in una posizione propizia. Sempre che si voltasse dalla loro parte, certo.
«Vi state divertendo?».
La signora bionda si chinò su di lei sorridente e un fascio di luce le sembrò investirla. Sollevò il capo, strizzando gli occhi. Ne era così abbagliata da non riuscire a vedere nulla. Provò a scostarsi, ma la voce di Pablo attirò la sua attenzione.
«Un uccellino mi ha detto che tra di voi c’è una persona che per il suo compleanno ha chiesto di partecipare al mio concerto, rinunciando alla festa…».
Il cuore di Federica subì un arresto. Poi riprese la sua corsa furiosa. No, non poteva essere lei. Chissà quanta gente partecipava al concerto. Prima che le luci si spegnessero, le era parso di vedere gli spalti pieni e quel posto era immenso. Si scosse, cercando di prestare attenzione a quello che il suo idolo stava dicendo, anche se l’invidia la punzecchiava dispettosa. Chissà chi era la fortunata!
Finalmente la luce si spostò, ma Pablo non era più sul palco. Frenetica lo cercò, annaspando, ignorando Veronica, che continuava a tirarla per la maglia.
«La vuoi smet…».
Le parole le morirono sulle labbra.
A pochi passi da lei c’era proprio lui e i suoi occhi verdi, così belli, da togliere il fiato, erano fissi nei suoi. Aprì la bocca, annaspando, alla ricerca dell’aria, ma si sforzò di non svenire, perché lui aveva allungato una mano, rivolgendole la parola.
«Andiamo?».
Federica non si mosse. Sentiva le gambe pesanti e le sembrava di essere salita su una nuvola. Forse stava ancora dormendo nella sua camera e tutto quello che stava vivendo non era poi così reale.
«Non vuoi venire?», le chiese sorridendo, prima di rivolgersi al pubblico.
«Sì, certo», riuscì a rispondere con enfasi.
Il volto del suo adorato Pablo s’illuminò, afferrandola per mano. Era più grande di sette anni, ma a lei sembrava perfetto, tanto da ignorare la differenza di età.
Lo seguì incredula, risalendo di corsa la scala che conduceva al palco. Il boato nel pubblico era così lontano e lui continuava a intrecciare le dita alle sue. Si era avvicinato al microfono e aveva cominciato a intonare la canzoncina di auguri che tutti conoscevano.
Sentì le lacrime salire agli occhi incontrollate e, con un gesto furtivo, se le asciugò con il dorso della maglietta di cotone. L’ultima cosa che voleva era essere considerata una bambinetta, ma tutto quello che stava accadendo era così bello da sembrare irreale. Pablo era a pochi passi da lei, la teneva per mano e la poneva al centro della sua attenzione.
«Quanti anni compi?», le chiese a un tratto.
«Quindici», rispose in un soffio e lui si chinò porgendole l’orecchio, come se non sentisse, mentre si portava il microfono alle labbra.
«Quindici», ripeté con maggiore enfasi.
«Wow!», esclamò. «Allora dobbiamo festeggiare», si voltò verso il pubblico. «Non è vero?».
«Sììììì», fu la risposta corale.
Si piegò leggermente sulle ginocchia. Era molto più alto di lei, anche se Federica non era proprio bassa.
«Che ti piacerebbe fare?», le chiese. «Qualsiasi tuo desiderio sarà esaudito», le promise.
Inspirò profondamente e infine rispose: «In verità ho due richieste …».
«Due. Addirittura!», la canzonò, senza mai lasciarle la mano.
Trattenne il fiato, attendendo la sua risposta.
Lui sembrò rifletterci. Aggrottò la fronte, facendo delle smorfie buffe, prima di tornare a lei. «Accordato. Non si compiono due volte quindici anni», riconobbe, prima di farla voltare verso il pubblico, per chiederle: «Sentiamo queste richieste».
Incredula, si fece audace.
«Vorrei vedere tutto il concerto da un angolo del palco».
«Si può fare», annuì.
A Federica sembrò di toccare il cielo.
«E la seconda?».
«Vorrei dare e ricevere il mio primo vero bacio», arrossì fino alla radice dei capelli.
Non avrebbe mai creduto di trovare il coraggio di chiedergli una cosa simile, anche se lo aveva sognato spesso.
Pablo parve sorpreso. Le sue dita si allentarono qualche istante, mentre i suoi occhi ruotavano verso la parte interna del palco, sull’entrata laterale. Le labbra serrate si schiusero leggermente, mentre girava su stesso per chiedere al pubblico:
«Che dite? Esaudiamo il sogno della nostra quinceañera?».
La risposta non si fece attendere. Fu un grido unanime: «Sìììì».
Pablo si sollevò, senza lasciare la presa.
«Prima però creiamo l’atmosfera», stabilì, facendo cenno ai musicisti di passare al pezzo successivo.
Federica lo riconobbe immediatamente. Era una canzone molto romantica.
«Visto che presto ci baceremo, fingiamo che tu sia la donna di cui sono innamorato e che non voglia perdonarmi, anche se ricambi i miei sentimenti».
Annuì determinata, sentendo i capelli lunghi e neri scivolare fluidi lungo la schiena.
«Conosco la canzone», lo rassicurò e scorse un sorrisetto divertito sulle labbra di lui.
Si liberò a malincuore della sua mano, dandogli le spalle, con le braccia incrociate sotto il petto.
Con la figuretta esile, se ne stava rigida e dritta, come una donna profondamente offesa nell’onore. Non poteva vederlo, ma le sembrò di sentire nella sua voce una risata soffocata, come se apprezzasse la sua capacità di entrare nella parte. Quando lui cercava di afferrarla per la vita, lei si scostava, rivolgendogli sguardi truci. Il risultato doveva piacere anche agli altri, perché applaudivano, ripetendo il suo nome. La canzone lentamente volgeva al termine e finalmente poté voltarsi.
«Sai che il mio cuore è tuo», le stava cantando Pablo e lei s’immaginò nella sua cameretta, con la musica a tutto volume. Fantasia e realtà si confusero, mentre riviveva quella scena tante volte immaginata. L’amore della sua vita le si avvicinava, avvolgendola nel suo abbraccio e con lo sfumare delle note la stretta intorno alla vita si rafforzò e Federica vide il viso di lui avvicinarsi lentamente.
Rimase con gli occhi aperti, spalancati sul suo volto. Le sue amiche le avevano detto che andavano chiusi, ma lei non voleva perdersi neppure un secondo di quello che nella sua vita sarebbe rimasto come un episodio indelebile e irripetibile. Scorse le palpebre di lui scendere sulle iridi verdi e sentì il tocco delle sue labbra a contatto con le sue. Erano morbide e soffici. Si chiese cosa dovesse fare per rispondergli, ma sentì le mani del cantante risalire lungo la schiena e aderì al suo petto. Aveva un odore piacevole e nonostante fosse sudato, continuava a profumare. Si accorse che le dita erano salite alla nuca e il bacio si era fatto più insinuante. Avvertì la sua lingua e istintivamente s’inarcò contro di lui, aprendo la bocca per riceverlo. Si muoveva a suo agio, come se non avesse fatto altro per tutta la vita e lei era attraversata da sensazioni così piacevoli, che non avrebbe mai voluto allontanarsi. Timidamente, provò a rispondere al suo tocco, imitandolo, fino a quando le loro lingue si toccarono. Provò a tirarsi indietro, ma lui rafforzò la stretta e lei capì che avrebbe voluto che continuasse. Ringalluzzita, prese coraggio e affondandogli le mani tra i capelli lo attirò nella sua bocca. Le sembrava di sentire fischi e applausi, insieme allo strimpellare di una chitarra, ma tutto arrivava ovattato e mescolato alle piacevoli sensazioni che attraversavano il suo corpo. Si accorse che il respiro era diventato affannato e si sciolse da quell’abbraccio, a malincuore, posando gli occhi sul quel petto che rispondeva al suo. Come lei, anche lui, faticava a tornare alla realtà. Sollevò lentamente lo sguardo sul suo viso. La teneva stretta, con lo sguardo fisso sulle sue labbra, ma scivolò poi nei suoi occhi e un sorriso lo illuminò, mentre allentava la presa e recuperato il microfono, esclamava: «Però! Promette bene».
La risata generale la riportò alla realtà. Il sogno era finito. Ora non le restava che allontanarsi nell’ombra del palco, in quel lungo e interminabile saluto.
 I musicisti avevano attaccato un nuovo pezzo e lui si era chinato a baciarle la mano in un gesto galante. Scorse Patricia, con Veronica, sulla sinistra, all’entrata del palco, che le facevano cenno di avvicinarsi.
«Com’è stato?», le chiese l’amica.
«Indimenticabile», rispose lei, con aria sognante e le sembrò di scorgere il loro angelo custode ridere divertita, poggiandole una mano sulla spalla.
Il concerto continuò senza intoppi.
Federica faticava a restare con i piedi per terra. Avrebbe voluto registrare nella mente ogni singolo passaggio di quella serata, ma le emozioni vissute erano troppe e faticava a tenerle raccolte.
Si accorse che Pablo stava salutando, pronto a congedarsi, e vicino a lei si erano affollati un bel numero di persone. L'avrebbe salutata, uscendo? Lo sperò. Infondo si erano scambiati un bacio. Che sciocca, pensò. Doveva averne baciate centinaia di donne. Per lei invece era il primo.
«Veronica deve andare in bagno. Vieni anche tu?», le chiese Patricia, preparandosi a uscire.
Scosse il capo. «Vi aspetto qui», rispose. Non voleva perdersi neppure un istante del suo passaggio. Lo avrebbe salutato e forse lui le avrebbe anche risposto con un cenno della mano.
Si sentì strattonare e si mosse leggermente. Pablo si sbracciava, sparendo nell’ombra. Era a pochi passi da lei, ma non la vedeva. Lo circondavano diverse persone, tra cui un omone grande quanto un armadio, che sembrava particolarmente arrabbiato. Una donna gli allungò un asciugamano e lui si tamponò il sudore del viso e del collo, ascoltando l’uomo furioso.
«Che ti è saltato in mente? Baciare una ragazzina di quindici anni, come un porco pervertito? Sarebbe bastato sfiorarle le labbra. Vuoi che il padre ci denunci? Domani sarà su tutti i giornali», gesticolava animatamente.
Federica avrebbe voluto intervenire. Anzi era sul punto di farlo, quando sentì la risposta di lui e il mondo sembrò crollarle addosso.
«Tranquillo! Puttane si nasce nella culla e quella promette proprio bene. Devi vedere come bacia. Altro che il suo primo bacio. Deve essersene passati diversi. Ero così eccitato che me la sarei fatta davanti a tutti».
Un dolore le attraversò il petto. Si accasciò su se stessa, mentre, arretrava dietro un tendaggio, per sparire alla vista di tutti, ma soprattutto alla sua.

1




Milano

Lavorare per la rivista Famosi le era parsa una grande occasione, quando, dopo la laurea e il master in editoria multimediale, le avevano proposto uno stage, a cui aveva fatto seguire l'esame di stato, che aveva superato brillantemente. Ai primi passi era seguita un’assunzione a tempo determinato per sei mesi, che le era stata poi rinnovata per almeno due volte. Mancavano ora poche settimane alla scadenza e in cuor suo sperava che questa fosse la volta buona per trasformare il rapporto in tempo indeterminato. In quell’anno e mezzo si era fatta valere, portando a casa interviste con alcuni esponenti politici messicani e argentini. I ritratti che ne aveva fatto erano piaciuti al suo capo redattore che ne aveva parlato anche con il direttore generale. Insomma, una conferma le sembrava giusta e plausibile.
Lavorava sodo e non si tirava indietro, anche quando le veniva chiesto di correggere delle semplici bozze. Era disponibile e gentile con le colleghe e capace di muoversi su più fronti. L’ultimo incarico la vedeva relegata alla rubrica di cucina internazionale. Non le piaceva particolarmente, ma aveva accettato per mostrarsi flessibile.
La sua scrivania era piena fino all’inverosimile e le colleghe continuavano a riversare faldoni, ripagandola con bicchierini di caffè. Se ne avesse bevuto ancora uno l’avrebbero ricoverata d’urgenza al primo presidio ospedaliero.
La porta si aprì e Monica, la segretaria del direttore generale, una rossa tutte curve, si avvicinò alla sua postazione, ancheggiando sui tacchi a spillo.
«Non se ne parla proprio», sollevò una mano e con l’indice mimò un fermo diniego.
Monica sorrise, aggrottando la fronte, mentre si sedeva sulla punta del tavolo, incrociando le belle e lunghe gambe, che tanto facevano impazzire il suo capo.
Quella storia andava avanti da prima del suo arrivo in redazione e nonostante non ci fossero prospettive, visto che il presidente era sposato con prole da almeno trent’anni, lei sembrava soddisfatta.
Le iridi calde e dolci come il miele si posarono divertite sul suo volto. Allungò una mano curata, con le unghie laccate di un rosso fuoco, giocherellando con una penna.
«Se non ti ho detto nulla, come puoi già rifiutare?».
Federica si piegò nelle spalle.
«Non posso sostituirti all’ora di pranzo. Non posso coprirti per un appuntamento dal ginecologo e non ho tempo per trascriverti nulla. Ho un’agenda pienissima», assicurò.
La segretaria fece roteare gli occhi al soffitto, con finta sopportazione.
«Sei come sempre prevenuta», sbuffò, chinandosi leggermente, mettendo in mostra quello che offriva il generoso decolté.
Distolse lo sguardo, tornando allo schermo del computer.
«Vorrei farti notare che la mia preferenza è per il mondo maschile».
La risata divertita dell’altra, la strappò dalle sue incombenze.
«Non ne ho mai dubitato e come ben sai anch'io sono etero», si sistemò la giacca, che lasciava intravedere un reggiseno di pizzo.
Non erano affari suoi, ma nonostante condividesse ben poco con lei, le era simpatica.
«Mi dirai di farmi gli affari miei e hai ragione, ma mi dici come può piacerti un uomo sposato che ha molti più anni di te?».
Come sempre non si scompose. Scese dalla scrivania, lisciandosi la gonna, con estrema calma, posando infine lo sguardo su di lei.
«Non tutte siamo come te», le disse e Federica aggrottò la fronte, incerta. «Tu sei bella, colta, intelligente e di buona famiglia. Hai girato il mondo al seguito dei tuoi genitori e hai al fianco un uomo con cui ti sposerai presto, mentre io ho un diploma di estetista, che non ho mai utilizzato, e mia madre era una tossica. Mi ha cresciuto mia nonna, fino a quando non è morta. Pietro Villetri è il meglio sulla piazza per una come me. Mi paga lo stipendio, anche se lavoro poco, mi ha comprato una casa e con la scusa della moglie e dei figli, non mi chiede mai più di quando sia disposta a dargli», fece una piccola smorfia.
«Non ci credi neppure tu a quello che dici», sbottò Federica, incrociando le braccia sotto il petto. Si piegò sulla scrivania di pressato bianco, scostando una pila di pratiche da controllare e archiviare. «Tu vali e, continuando a frequentare un uomo impegnato, ti priverai della possibilità di diventare madre e di farti una vita tutta tua. Lo sai questo?».
Le dita laccate disegnarono delle figure geometriche davanti a lei.
«Per fare quello che dici tu dovrei licenziarmi e pensi che qualcuno mi assumerebbe senza referenze e competenze specifiche?».
Federica la osservò. Era bella, appena trentenne e anche se non aveva studi specifici ed esperienze significative nel mondo lavorativo, poteva trovare qualcosa. I suoi occhi scesero alla figura snella e formosa.
«Potresti cercare lavoro come commessa in qualche boutique lussuosa», improvvisò. «Ce ne sono alcune che pagano bene e considerato che non hai bisogno di fittarti una casa, vivresti dignitosamente», le assicurò. «Potresti riprendere gli studi e…».
«Sei molto cara, ma credimi, non mi conviene mollare il mio pollo». Con un balzo scese dalla scrivania, dando uno sguardo distratto agli alti e grigi palazzi che si scorgevano dalla sua finestra. Inspirò leggermente, tornando a lei.
«Comunque il capo ti vuole parlare», le riferì.
«A me?», chiese incredula.
Era assai raro che il direttore generale si ricordasse di lei.
«Sai che vuole?».
«Penso ti voglia affidare un incarico».
Una certa euforia si fece strada in lei. Che Roberto fosse riuscito a parlargli, mostrandogli il suo curriculum? E allora, perché non le aveva detto niente? A dire il vero, nelle ultime settimane si erano visti poco e la cosa appariva ridicola, visto che dividevano lo stesso appartamento, ma il suo compagno era un miraggio nella sua vita quotidiana. Appariva e spariva di ritorno da un viaggio e in partenza per un altro. Andare a vivere insieme non era stata una scelta consapevole, ma un’esigenza imposta dalle circostanze. Altrimenti non si sarebbero mai incontrati e il loro rapporto si sarebbe estinto per mancanza di contatti.
«Che tipo di incarico?», le chiese alzandosi.
Sfilò dal cassetto la borsa e ne tirò fuori uno specchietto. Lo aprì, osservando critica la sua immagine riflessa nello specchio. I capelli neri e lisci le accarezzavano le spalle. Gli occhi grandi e scintillanti, di un azzurro intenso, erano un vezzo in quel viso carino, ma a suo parere non perfetto, che le regalavano vivacità. Fece una smorfia. Il trucco aveva retto ed era ancora presentabile, anche se erano le quattro del pomeriggio.
«La vuoi smettere di rimirarti? Sei bellissima. Avessi io il tuo fisico asciutto e quell’incarnato diafano. Sembri una damina dell’Ottocento, uscita da un quadro».
«Che sciocchezze!», si schernì, sistemandosi la giacca del tailleur, scuotendo il pantalone che finiva sull’orlo dei mocassini.
Roberto era alto quanto lei, un metro e settantacinque, e con i tacchi lo avrebbe superato abbondantemente. Così aveva perso l’abitudine di indossarli e con il tempo si era assuefatta alla comodità di un abbigliamento sobrio e lo trovava terribilmente rassicurante.
«Andiamo o ti serve un’altra mezz’ora?», la canzonò Monica, anticipandola alla porta.

♫♫♫


L’ufficio del capo era all’ultimo piano di quel palazzo di vetro. Dalla finestra, sul lato della porta, si poteva scorgere l’aria finanziaria della città, con i suoi alti palazzi anonimi e la frenetica vita lavorativa. C’era sempre qualcuno con la testa piegata su un telefono, o la ventiquattrore serrata al braccio.
Monica scivolò dietro la sua scrivania immacolata, componendo l’interno del direttore.
«Federica Bocci è arrivata. La faccio passare?», sollevò lo sguardo su di lei, restando in attesa.
Ne approfittò per guardarsi intorno. Non saliva spesso a quel piano. Di solito era Monica che la raggiungeva al quinto, ma era capitato che si affacciasse e ogni volta era stupita dalla formalità di quel posto. Era come se tutto fosse sistemato con un ordine maniacale. Ogni oggetto era collocato ad arte, dalla pianta per interni, vicino alla vetrata, al divanetto con vista sul mosaico di riviste, che occupava la parete di fronte. Un grosso mobile in noce copriva il muro principale e le ante chiuse impedivano di sbirciare al suo interno.
«Ti aspetta».
Si distolse dai suoi pensieri, per bussare discretamente alla massiccia porta con l’etichetta in oro, che riportava il nome del titolare: dott. Pietro Villetri.
«Avanti», rispose la voce tonante del direttore.
Piegò la maniglia ed entrò.
Si ritrovò in una stanza ampia e spaziosa, dall'arredo moderno ed essenziale. La scrivania del capo era al centro dello studio, sullo sfondo di una vetrata, celata da un pesante tendaggio blu.
Era seduto alla sua postazione, con il capo chino su dei fogli. Scriveva senza sosta, ma sentendola entrare sollevò lo sguardo. Era un uomo sui sessanta, con una pronunciata calvizie e una prominente pancia, che non riusciva a nascondere neppure con i suoi completi scuri. Le fece cenno di sedere in una delle due poltrone che aveva davanti.
Federica non se lo lasciò ripetere nuovamente. Scivolò nella poltrona accavallando le lunghe gambe snelle, restando in attesa. I suoi occhi spaziarono nella stanza ammirando alcune stampe sulle pareti, che riproducevano squarci della Milano storica.
«Dottoressa, andiamo subito al dunque…», irruppe nei suoi pensieri.
Si voltò a guardarlo attenta. Aveva un naso importante e labbra sottili e grandi. Gli occhi castani, nascosti dietro le lenti, brillarono vivaci. «Sono contento di comunicarle che presto il suo rapporto da tempo determinato si trasformerà in un contratto a tempo indeterminato».
Federica trattenne il sussulto di gioia che le era salito alle labbra, portandosi le mani alla bocca, cercando di ritrovare il contegno.
Velletri sorrise, ma sollevando la penna che brandiva come un’arma, gliela puntò contro.
«Non canti ancora vittoria», la avvisò.
Si mosse a disagio sulla poltrona, crucciata.
«Dottore, con tutto il rispetto, penso di aver fatto un buon lavoro in quest’anno e mezzo».
«Sì, è così, ma la rivista, negli ultimi tempi, ha arrancato un po’ e non posso permettermi nuove assunzioni. Dunque, prima di formalizzare il nostro rapporto, devo accertarmi che ricoprirà l’incarico che sto per offrirle».
«Vuole propormi un cambio di mansione?».
L’uomo si addossò alla poltrona, pensieroso. Si inumidì le labbra, cercando le parole.
«In un certo senso», ammise. «Si tratterebbe di seguire una persona per dodici mesi, attraverso i suoi spostamenti, il suo lavoro, la sua vita privata, trasformandoli in articoli per la rivista e in una biografia finale, che scriverà a quattro mani con una star del panorama internazionale».
«Accetto», si affrettò a rispondere.
Niente di più fattibile per lei, ma Velletri sorrise, facendole cenno di procedere con calma.
«Non è così semplice. La persona che dovrebbe seguire in questi mesi è un personaggio parecchio chiacchierato, che negli ultimi anni ha accumulato successi, ma anche grandi eccessi. Di recente è stato ricoverato in una clinica per disintossicarsi».
Fece una smorfia. L’idea di passare le giornate fronteggiando le bizze di una stella capricciosa e volubile era molto meno allettante di quanto immaginasse, ma poteva sobbarcarsi qualche compromesso.
«Va bene», acconsentì.
Il sopracciglio dell’uomo s’inarcò, scrutandola attentamente.
«La persona in questione non è italiana, ma trascorrerà buona parte del prossimo anno nel nostro paese, per mantenere fede ad alcuni degli impegni presi. Lei lo dovrà seguire in giro per l'Italia ed eventualmente anche all'estero, se dovesse spostarsi. Sarà la sua ombra».
Federica fece una smorfia, cercando di non lasciare intravedere crepe nella sua posa professionale.
«Il vostro punto di riferimento sarà Ischia».
«Ischia?», esclamò sorpresa. Suo padre era di quell'isola vicina a Napoli e lei stessa vi era tornata per le vacanze nei primi anni di vita. Non aveva molti ricordi di quel posto, ma il suo genitore gliene parlava sempre con affetto e nostalgia.
«Sì», le confermò il direttore. «Pare che abbia degli amici lì, che gli hanno messo a disposizione una casa». L'uomo si piegò nelle spalle. «Il posto è tranquillo, ma lei lo dovrebbe sapere o sbaglio?».
«Ho origini ischitane», annuì, vedendo il superiore sorridere soddisfatto.
«Ho chiesto se potesse essere ospitata anche lei in villa, ma per il momento non ho avuto riscontro e dunque le prenoteremo un albergo per i periodi in cui il nostro personaggio soggiornerà sull'isola, almeno che lei non abbia dove pernottare».
Lo sguardo speranzoso la diceva lunga sulla scelta. La rivista voleva risparmiare sulle spese, ma si poteva fare.
«Non dovrei avere problemi, ma le chiedo qualche giorno per appuralo», riconobbe, riservandosi la possibilità di parlarne con i suoi, prima di dare una conferma.
Velletri annuì soddisfatto. Anche questo punto era chiarito e aveva ripreso la sua esposizione:
«Proveremo a strappargli qualche altra concessione, perché come comprenderà vivere nella stessa struttura del nostro uomo ci consentirebbe di conoscere aspetti meno noti della sua vita privata, che poi potremo rielaborare per gli articoli e il libro».
«Naturalmente», rispose comprensiva, anche se cominciava a chiedersi l'identità della persona che avrebbe dovuto tallonare.
«È una donna?».
Rabbrividì all'idea di una diva capricciosa, circondata da guardie del corpo. Fece una smorfia. Nonostante tutto non avrebbe potuto rifiutare. Un'occasione come questa non le sarebbe più capitata.
«È un uomo», le rispose il direttore, con uno strano sorrisetto sulle labbra. «Se vuole, parlo io con Roberto».
Quell'accenno alla sua vita privata, la fece arrossire.
«Non è necessario», assicurò, abbassando lo sguardo.
Di lui si sarebbe preoccupata dopo. Un anno in viaggio avrebbe rappresentato una prova difficile, ma utile per testare la solidità del loro rapporto, visto che pensavano di sposarsi presto.
«Meglio così», osservò l'uomo, tornando a sfogliare delle carte davanti a lui, prima di scrutarla attraverso i suoi occhiali. «Roberto non mi è mai parso un tipo geloso e lei naturalmente non gliene dà motivo, ma il nostro personaggio piace molto al mondo femminile».
Federica sollevò un sopracciglio. Tutto questo giro di parole cominciava a irritarla.
«Posso sapere chi è?».
Velletri non le rispose. Tirò fuori dalla cartellina una foto e gliela mostrò.
Sentì il cuore venirle meno e il sangue arretrare nelle vene. Sollevò lo sguardo in quello attento del suo capo.
«Pablo Echevarría?», riuscì a chiedere, annaspando nel buio.
Doveva essere impallidita, perché il direttore si prese il disturbo di prenderle la mano attraverso la scrivania.
«Si sente bene?», le chiese, aggrottando la fronte preoccupato. «Le faccio portare dell'acqua?».
La mano le tremava vistosamente e chiuse gli occhi per qualche istante. Il tempo necessario per raccogliere tutto il contegno possibile per informarsi sulla questione più impostante.
«Dovrei passare un anno al seguito di Pablo Echevarría?», la voce tremò leggermente, mentre elaborava il suo pensiero.
«Sì», le confermò, addossandosi alla poltrona pensieroso. «Mi rendo conto che è un incarico di grande responsabilità e che lei si è specializzata da poco, ma...».
«Non è questione di esperienza», lo interruppe, lasciando ricadere sul ripiano la fotografia. Si portò la mano chiusa a pugno davanti alle labbra pensierosa. Doveva trovare le parole giuste per spiegare il suo rifiuto. «È che...». Richiuse la bocca, per tornare a quell'immagine della pop star sul palco, mentre si esibiva nel suo solito abbigliamento: pantaloni di pelle nera e camicia trasparente dello stesso colore, che metteva in mostra un fisico scultoreo. Erano trascorsi undici anni, ma sembrava che il tempo non fosse passato. «È che...», riprese da dove aveva lasciato, senza trovare il coraggio di parlare.

«Dottoressa, non perdiamo tempo».
 Il direttore si sporse leggermente sottraendole la foto. Sembrava spazientito. Si portò l'immagine sotto gli occhi e tornò a guardarla. «Il suo contratto è in scadenza, come quello di altre persone. Se non fosse per la sua conoscenza della lingua spagnola, non le avrei proposto questo incarico e lei, come le altre, sarebbe già fuori dall'azienda».
Federica incassò il colpo, stringendo i denti, socchiudendo leggermente le palpebre. Non avrebbe potuto essere più brutale, ma il mondo del lavoro non conosceva remore. Erano lì per produrre e le questioni personali non importavano a nessuno.
«Non mi consideri un'ingrata, perché non lo sono. Apprezzo molto il fatto che abbiate pensato a me, ma...». Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e con uno sforzo le ricacciò indietro. Sollevò leggermente le spalle e infine disse: «Non posso».
Sentì il respiro pesante dell'uomo e il suo pensiero volò a quel cielo limpido e insolito per Milano, che contrastava così pesantemente con l'aria che si respirava in quella stanza cupa, con le tende chiuse e la luce artificiale accesa.
«Posso sapere il motivo?», rinfilò la foto nel plico, chiudendolo.
«È una lunga storia...», tergiversò.
«E lei la renda breve», sbottò l'uomo di cattivo umore.
Strinse le labbra, cercando una qualsiasi scusa, ma il suo cervello era come paralizzato. Sentiva la sua figura tremare leggermente e in silenzio si rimproverò per la mancanza di coraggio. Poteva confessargli che da ragazzina era innamorata di lui e questi le aveva spezzato il cuore? L'avrebbe presa per una stupida o forse l'avrebbe incoraggiata per poi ricavarci qualcosa.
«Preferirei non parlarne», arrossì leggermente.
Il direttore la osservava pensieroso. Gli occhi ridotti a due fessure, puntellava la penna sul planner davanti a lui.
«Si rende conto che, di fatto, è già fuori da Famosi?».
«Sì», annuì risoluta.
«E non le importa?».
«Mentirei, se le dicessi che non mi spiace lasciare questo impiego e anzi mi rendo disponibile a ricoprire qualsiasi altro incarico, ma non questo».
«Le confesso che non la capisco. Echevarría è un nome altisonante nel mondo della musica. Nonostante il suo sia un genere molto pop, piace anche alla critica», le si avvicinò attraverso la scrivania, con un sorrisetto malizioso sulle labbra. «Non si sa molto della sua vita privata, tranne che proviene da una famiglia ricca e che non ha una compagna fissa. Si parla anche di grandi eccessi, ma non si hanno prove e questo rende ancora più appetibile la sua disponibilità ad avere qualcuno tra i piedi». Tornò alla sua spalliera, osservandola curioso. «Non è stato semplice strappargli il consenso, ma lo abbiamo ottenuto.  È da più di un anno che lavoro a questa cosa. Ho stretto accordi con altre riviste europee e americane, per rivendermi le informazioni che pubblicheremo su Echevarría e non posso permettermi sbagli. Se non se la sente, pazienza. Devo però chiederle di non lasciare uscire fuori da questa stanza il nome che le ho fatto». Si mosse leggermente sulla sedia, per sistemarsi meglio.
«Non si preoccupi», abbassò il capo sul grembo, continuando a torturarsi le mani.
Il telefono sulla scrivania cominciò a suonare insistentemente. Velletri sollevò gli occhi al cielo spazientito.
«Mi spiace che lei abbia rinunciato, perché oltre a conoscere la lingua spagnola, lavora con noi da un po' e ora dovremo invece affidarci a qualche sconosciuto, ma se non vuole ripensarci...».
Gli fece cenno di andare.
Non le restava che raccogliere il suo orgoglio e lasciare la stanza. Sentì la voce tonante alle sue spalle rispondere al telefono, mentre apriva la porta e incrociava lo sguardo luminoso della segretaria.
«Com’è andata?».
Monica la guardava speranzosa, ma l’entusiasmo iniziale si attenuò visibilmente davanti al suo turbamento. Si alzò per prenderla per mano e farla sedere su una delle poltroncine per gli ospiti. Si piegò sulle ginocchia.
«Che è successo?», rafforzò la stretta della sua mano. «Non ti ha mica licenziata?», le chiese incredula.
«Non ancora», riuscì a rispondere, tirando su con il naso. «Mi ha detto che se rifiuto l’incarico dovrò trovarmi un altro lavoro».
Monica aggrottò la bella fronte, cercando di rielaborare i dati.
«Perdona la franchezza, ma non ti ha chiesto di seguire Pablo Echevarría?».
Nel pronunciare il nome del musicista si guardò intorno, abbassando la voce.
«Come fai a saperlo?», le chiese, portandosi una mano alla tempia, per controllare il dolore che all’improvviso l’aggrediva.
«Sono stata io a fargli il tuo nome», le rivelò, facendo una smorfia. I suoi occhi chiari e dolci come il miele, si ravvivarono. «Maria delle risorse umane gli ha portato i contratti da rinnovare e lui ha preso tempo, per poi confidarmi che non poteva confermare l'incarico alle ultime arrivate, perché gli serviva qualcuno per seguire Echevarría. È un'operazione importante che costerà parecchi soldi, ma, se andrà come sperato, porterà lustro e visibilità alla rivista e alla persona che se ne occuperà. Perché dovresti rifiutare?».
Il telefono sulla scrivania squillò. Sbuffando, Monica sollevò il ricevitore. L'espressione sul suo viso cambiò rapidamente, incupendosi. Fece una smorfia, affrettandosi a lasciare la postazione per entrare dal capo. Si soffermò qualche istante a osservarla e infine esclamò:
«Ti porto fuori a cena stasera. Ti mando un messaggio, così mi dici dove devo venirti a prendere».
Si congedò con un bacio al volo, inghiottita dalla stanza dei bottoni.

♫♫♫


Monica attraversò lo studio sui tacchi a spillo. Il rumore era attutito dal parquet. Sculettò adeguatamente, scorgendo lo sguardo cupo del suo uomo addolcirsi leggermente. Cattive notizie in arrivo registrò, mentre lui ruotava sulla sedia e le faceva cenno di sedere sulle sue gambe.
Sorrise maliziosa, assecondandolo.
La gonna stretta del tailleur salì leggermente sulle gambe e la mano rugosa dell'uomo s’infilò tra le sue cosce, mentre gli gettava le braccia al collo per baciargli le labbra.
Lo sentì sospirare compiaciuto, rilassandosi sulla poltrona.
«Che è successo?», s’informò, carezzandogli un orecchio.
L'espressione turbata di prima era sparita al suo tocco, ma ora tornava a irrigidirsi.
«Questo fine settimana non potremo stare insieme».
Monica gli sollevò il mento, per guardarlo negli occhi. Gli sfilò gli occhiali e li ripose sulla scrivania.
«Approfittiamone ora...», le sue mani si posarono intorno al nodo della cravatta per allentarlo, ma lui la fermò, sospirando.
«Ho una riunione tra dieci minuti», le disse, scostandosi. «Ti ho chiamato per dirti di domani. L'ho appena saputo», fece una smorfia. «Mi ero dimenticato l'anniversario di matrimonio».
Monica sospirò dispiaciuta. Era sempre la stessa storia, ma si costrinse a sorridere, alzandosi.
«Capisco», rispose sistemandosi la gonna e poi i capelli.
Velletri recuperò le sue cose, passandole accanto, ma prima di raggiungere la porta si voltò.
«La tua amica ha rifiutato l'incarico, quindi chiama Maria e dille di fissare un appuntamento con le candidate scelte».
Fece una smorfia. Non le piacevano affatto quelle due. Sembravano disposte a qualsiasi cosa per ottenere un incarico.
«Non dirmi che sei gelosa!».
Il volto grassoccio del suo uomo s’illuminò.
Scosse leggermente la capigliatura folta e riccia, sorridendo appena.
«Oramai mi leggi nella mente», rispose, certa di avere la sua attenzione.
Lo raggiunse a passi lenti, lasciando che lo sguardo dell'uomo corresse sulla sua figura armoniosa, desiderandola, senza poterla avere per il momento. Gli gettò le braccia al collo, rivendicando un bacio. Aveva le labbra rosso fuoco, morbide e sensuali.
Parve tentato. Rimase a osservarla per un lungo attimo, ma infine si tirò indietro.
«Non posso. Ci manca solo che arrivi sporco di rossetto», sospirò, stringendola a lui, per inspirarne il costoso profumo che le aveva regalato.
Monica lo lasciò fare, sentendo il naso nel suo collo. Ricambiò la stretta, sussurrandogli all'orecchio:
«Per la mia amica, non preoccuparti. Confermale l'incarico e dai il suo nominativo allo staff di Echevarría».
L'uomo si scostò leggermente, aggrottando la fronte.
«Che hai in mente?».
Scrollò le spalle.
«Niente d’improponibile. Sono certa che accetterà e se non dovesse farlo, chiameremo quelle due», gli concesse.
Velletri la tenne stretta qualche istante, scostata da lui, per osservarla attentamente.
«Ti concedo cinque giorni. Se non cambia idea, è fuori», le disse, lasciandola andare.
Raggiunse la porta e piegò la maniglia, voltandosi.
S’infilò una mano in tasca, con un sorriso divertito sulle labbra.
«Perché ti interessi tanto a quella ragazza?».
«Mi è simpatica», ammise, scrollando leggermente le spalle, mentre si rimirava la manicure. Le unghie lunghe, laccate di rosso, le snellivano le dita. «È una delle mie poche amiche. L'unica in questo posto ed è molto preparata, dunque, ti faccio un favore, impedendoti di licenziarla».
«Cinque giorni», le ricordò.

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