Quando dai sogni si passa alla realtà a volte l'amore è meno scontato di quanto si immagini... Ne sa qualcosa Federica che se da ragazzina sognava di conoscere e baciare il re del pop latino, Pablo Echevarría, da adulta farebbe qualsiasi cosa per evitarlo, mettendo a rischio anche la carriera, pur di salvare il cuore.
Prefazione
Undici anni prima
Città del Messico, Foro Sol
«Merda!», si morse un labbro.
Quella sera non era
dell’umore adatto.
Era stata una giornata lunga
e faticosa, a conclusione della quale aveva anche litigato con i suoi.
Sbatté, con un gesto di
stizza, la porta del camerino, passandosi nervosamente le mani tra i capelli.
Scivolò a sedere davanti al tavolo per il trucco e sbuffando si diede uno
sguardo allo specchio.
L’immagine che gli restituiva
non era affatto male: pelle ambrata, liscia e fresca, sbarbata da poco, occhi
verdi messi in risalto da folte e lunghe ciglia nere e capelli corvini che gli
sfioravano il colletto. Fece una smorfia, scivolando sulla poltrona. Le ore di
palestra e la corsa mattutina gli permettevano di sfoggiare un fisico asciutto
e muscoloso, che insieme alla voce calda e leggermente roca lo avevano
consacrato come uno dei cantanti più famosi dell'America Latina, pronto per sbarcare
anche in Europa. Il suo manager aveva contatti con la Spagna e, con un poco di
fortuna, la grande scalata del Vecchio Continente sarebbe stata possibile.
La sua famiglia avrebbe
dovuto appoggiarlo. Anzi avrebbe dovuto essere orgogliosa del suo lavoro e dei
risultati raggiunti in così pochi anni. Il suo era un talento vero. La stampa e
gli addetti ai lavori non facevano che riconoscerlo, ma, per i Gutiérrez, Pablo
era e restava la pecora nera della famiglia. Suo padre non aveva voluto neppure
che usasse il loro cognome e così era diventato Pablo Echevarría.
Solo sua madre, Amparo, lo
sosteneva. Doveva a lei gli studi nel campo musicale.
Non voleva pensare a quella
povera donna vessata dal marito e dai restanti due fratelli. Sfortunatamente
non aveva sorelle e sua madre era l’unica figura femminile nella famiglia di imprenditori.
Muoversi in quell’universo di caproni insensibili non era impresa semplice.
Non che il mondo della musica
si potesse definire dolce e delicato, soprattutto a quei livelli, ma la sensibilità
tipica degli artisti l’aveva ereditata da sua madre e gli spiaceva non
potersela portare dietro. Aveva provato a farlo, ma suo padre si era opposto
con tutte le sue forze. Amparo era, prima di essere sua madre, sua moglie e il
suo dovere era prendersi cura di lui e della sua famiglia. Non le avrebbe certo
permesso di girare il mondo al seguito di quell’oggetto sessuale, che per
eccitare le donne si sbatteva su un palco dando voce alle note.
Per Francisco Gutiérrez
l’unica musica degna di tale nome era quella della tradizione. Tutto il resto
era spazzatura.
Si passò una mano sul volto,
stancamente. Inutile fargli notare che proprio grazie a quel cambio di registro
era riuscito a espatriare. Parlare con suo padre era impossibile e alla fine vi
aveva rinunciato. Purtroppo non poteva tagliare i ponti definitivamente con lui,
perché questo avrebbe significato spezzare il cuore di sua madre, a cui lui
invece era molto legato.
"Pablo, mi raccomando stai lontano dalla droga e non andare con donne
che non conosci bene. Portano malattie", rievocò.
Un sorriso gli piegò le
labbra. Glielo ripeteva ogni volta e lui le rispondeva di non preoccuparsi,
anche se non la ascoltava.
Da qualche tempo aveva preso
l’abitudine di sniffare, solo di tanto in tanto. Poca roba, per reggere i ritmi
a volte vorticosi e per quanto riguardava le donne, non ne aveva mai una fissa.
Era facile trovare qualcuna disponibile, con cui passare una o più notti. Non
duravano più di tanto. Si annoiava presto. Inoltre non si fermava mai in un
posto più di una settimana.
L’unica regola impostagli da Fernando Gonzalez
era di tenere a bada le fan. Consentito intrattenersi a scattare foto,
scambiare baci e abbracci a favore di camera, ma mai nulla di minimamente confondibile
con un atto sessuale. Neanche i baci con la lingua erano consentiti, anche se
poi a ogni concerto gli organizzava un incontro sul palco con qualche ammiratrice,
che gli saltava addosso in preda a una crisi isterica.
«Pablito, ce l’hai fatta!».
Come evocato dai suoi
pensieri Fernando entrò come un tornado, senza nemmeno bussare.
I due energumeni che sostavano fuori dalla
porta lo avevano lasciato entrare, riconoscendolo dalla sua mole maestosa. Alto
un metro e novanta, pesava due quintali, almeno a giudicare dall’aspetto.
Stringeva in un angolo della bocca un sigaro cubano e strizzava gli occhi
piccoli e infossati, inspirando il fumo.
«Non chiamarmi in quel modo.
Lo detesto», gli ricordò.
Il sopracciglio folto s’incurvò
qualche istante, prima di distendersi nuovamente. Fece strusciare sul pavimento
una sedia, accomodandosi.
«Hai ragione», annuì con il
capo, come quando contava l’incasso della serata e gli avrebbe perdonato
qualsiasi cosa. «Ci sono circa cinquantamila spettatori fuori e sono qui tutti
per te».
Pablo si piegò nelle spalle.
«Sai che novità», sbuffò,
contrariato, aggiungendo: «Ma dove si è cacciata Francisca? Non doveva portarmi
gli abiti di scena?», fece scorrere lo sguardo sulla maglietta di cotone e i
jeans sbiaditi.
«Eccomi!», esclamò la donna,
entrando di corsa. Piccola e tondetta, aveva il tipico aspetto messicano. Si
mosse sicura in quello stanzino, sistemando l'involucro che si trascinava
dietro.
«Speriamo che questa sera la
fan di turno non ti strappi la camicia», depositò il suo carico su una sedia. Abbassò
la cerniera e ne tirò fuori il completo di pelle, per infilarlo alla gruccia
sul carrello con gli altri abiti.
Finse di ignorarla, chiamando
a raccolta quello che sulla carta era il suo manager.
«Altre disposizioni per
stasera?».
L’uomo, che si era perso
nelle forme generose della costumista, tornò a lui, sollevando le spalle.
«Sì, certo», sorrise in modo
irritante. «Il Foro Sol è quasi al completo».
«Me lo hai già detto, ma continui
a ronzarmi intorno e questo mi lascia pensare che tu abbia altre motivazioni».
«Hai ragione», replicò
l’uomo, tornando con lo sguardo a lui. «Ti ho promesso che non ti organizzavo
più incontri con le fan sul palco…», esordì.
Pablo inspirò profondamente,
cercando di mordersi la lingua. Strinse i denti e respirò con il naso, come un
toro inferocito.
«Un altro completo rovinato»,
sospirò affranta la donna, sparendo dietro la porta.
Si lasciò ricadere sulla
poltroncina, senza fare una piega, rigirandosi apaticamente il cellulare tra le
mani.
Fernando si sporse sulla
punta della sedia, allungando la mano sulla sua spalla.
«Pablo, è solo spettacolo.
Che ti costa?», gli chiese, preoccupato.
Fiumi di soldi passavano
dall’uno all’altro e la defezione di uno avrebbe comportato una grave perdita
per entrambi. «Ė la figlia di un diplomatico, molto amico di mio fratello. Non
mi potevo rifiutare».
Il cantante scostò quella
mano sudata dalla sua clavicola, con un gesto brusco.
«Devo cambiarmi. Tra meno di
mezz’ora inizia lo spettacolo», gli ricordò, sfilandosi la canotta di cotone,
per infilarsi in bagno. Sentì l’uomo borbottare, avviandosi verso l’uscita, ma
prima che si richiudesse la porta alle spalle, tornò sui suoi passi.
«Lo farai?», gli chiese speranzoso.
Infilò una mano nel giubbino e ne tirò fuori un biglietto. «Oggi compie
quindici anni e tra il tuo concerto e una faraonica festa, ha scelto te.
Dovresti esserne lusingato».
«Come, no?», sollevò gli
occhi al cielo esasperato. «Quante volte vi devo dire che non voglio più fare
la parte del cretino che si spupazza le ammiratrici sul palco? L’ultima mi si è
attaccata addosso come una ventosa e per liberarmene ho dovuto faticare sette
camicie. Senza contare che piangono come fontane, non spiccicano parola e
sembrano sul punto di morire per infarto. Dio me ne liberi! Stasera poi non
sono proprio dell’umore adatto».
Fernando annuì ancora, come
se approvasse ogni singola parola, salvo poi, precisare:
«Questa però non puoi
rifiutarti di incontrarla».
«E chi lo dice?», si poggiò
un asciugamano intorno al collo, addossandosi allo stante della porta. «Fino a
prova contraria, la star dello spettacolo sono io e, se mi rifiuto di salire
sul palco, i ragazzi dovranno inventarsi qualcosa, suonando senza cantante per due
ore e, anche se non ho dubbi sulla loro capacità di reggere, difficilmente
riuscirete a frenare le proteste dei cinquantamila venuti ad ascoltarmi.
Quindi, posso oppormi», assicurò, annoiato. «Vi ho assecondato una volta, ma
questa idea di prendere una ragazza dal pubblico per cantare con lei al mio
fianco, non funziona».
«A ognuno il suo lavoro»,
cercò di farlo ragionare l’uomo, conciliante. «Quelle ragazzine nei primi posti
aspettano sotto il sole da questa mattina, con la speranza di essere scelte per
uno sguardo e sì, l’ultima volta la tipa era piuttosto focosa e ti ha baciato
davanti a tutti, ma l’effetto è stato devastante sul pubblico e anche i
giornali ne hanno parlato per giorni». Fernando si passò una mano tra i capelli
che gli coprivano le orecchie. «Fidati! Basta un buffetto e quattro moine.
L’ambasciatore italiano sarà contento e noi ci portiamo il risultato a casa».
«L’ambasciatore italiano?»,
chiese, sperando di non aver capito bene, ma Fernando annuì sornione.
«Sì. Figlia unica. Adorata e
viziata. Devo accontentare mio fratello. Ce ne prenderemo cura noi. A te spetta
solo la parte sul palco. Un piccolo sacrificio per un grande risultato. Dicono
che sia una ragazzina a modo. Non ti darà grane», fece il gesto dei soldi.
«Ė l’ultima volta».
«Certo», esclamò l’altro, per
nulla convinto.
«Indossa una maglietta rossa
e un jeans scolorito», gli spiegò soddisfatto, aggiungendo: «Non ti puoi
sbagliare. Ci sarà uno dei nostri vicino».
Pablo roteò gli occhi al
cielo.
E poi dicevano che la vita
dei musicisti era una pacchia.
♫♫♫
Federica non riusciva a
contenere l’emozione. Suo padre le aveva regalato i biglietti per il concerto
di Pablo Echevarría per i suoi quindici anni. In verità, i suoi le avevano
chiesto se desiderava organizzare una festa, come tutte le sue amichette,
seguendo la tradizione messicana della quinceañera,
ma lei aveva rinunciato. Non aveva tante amiche e i compagni di
scuola erano così spocchiosi da non meritare la sua attenzione.
Il caso aveva voluto che
proprio quel giorno al Foro Sol si sarebbe tenuta l’unica tappa del concerto di
Pablo in città e lei non intendeva perderselo. Se volevano dunque farla felice
avrebbero potuto procurarle i biglietti. Lei e Veronica avevano provato ad
acquistarli, ma erano andati esauriti nel giro di poche ore. Si era quasi
rassegnata, quando suo padre aveva bussato alla sua cameretta, mostrandole i
due cimeli.
«Papi!», incredula aveva
sgranato gli occhi di un intenso azzurro, eccitatissima.
«Non mi merito un bacio?», le
aveva chiesto il suo papone, ricevendo un abbraccio affettuoso e così, il
giorno precedente, lei e Veronica si erano organizzate per arrivare in tempo,
per scoprire, infine, che non sarebbe stato affatto necessario passare le ore
sotto il sole, in attesa dell’inizio del concerto, perché, grazie a un amico di
suo padre, sarebbero potute comodamente arrivare un'ora prima dell’inizio dello
spettacolo, contattandolo telefonicamente.
Aveva pensato a tutto il suo
supereroe, facendole accompagnare dal suo autista, avvisando il suo amico.
Miguel Diaz era uno dei
tecnici del suono. Apparve da un’entrata laterale allo stadio, dove una folla
era in fila: un signore sui trenta, vestito semplicemente, che le aveva
riconosciute dall’auto blindata.
«La signorina Bocci?», le
chiese, mentre il vetro si abbassava.
«Sì», annuì euforica,
stringendo la mano di una non meno emozionata Veronica.
«Venite con me», aprì la
portiera, facendo strada.
Arrancarono al suo seguito,
per essere infilate in una nuova macchina, percorrendo il tratto che dall’entrata
le conduceva dietro al palco. Con il naso schiacciato contro il vetro passava in
rassegna le roulotte e i camion ai margini.
«Lui è già arrivato?», si spinse
a chiedere a un Miguel piuttosto taciturno.
L’uomo sorrise appena, permettendo
al suo cuore di tornare a battere regolarmente, mentre scalava la marcia.
«Sì. Ė al trucco», le rispose.
«Al trucco?», esclamarono
all’unisono le due amiche turbate.
«Sì», annuì divertito il loro
accompagnatore. Con la coda dell’occhio scorse la loro espressione contrariata
e spiegò: «Ci sarà anche la televisione stasera e senza trucco il vostro bel
Pablo non risulterebbe al meglio».
«Ma lui non ne ha bisogno!»,
lo difese con enfasi. «Ė bellissimo di suo».
«Certo», commentò l’altro
poco convinto, rallentando l’andatura della vettura fino a fermarsi.
Con un balzo scese dall’auto
per aprire loro le portiere.
Federica affondò le scarpe di
ginnastica nella polvere, sistemandosi sulle spalle lo zainetto nero, attendendo
Veronica che, più bassa di lei, si aggrappò alla sua mano, seguendo in silenzio
Miguel Diaz. Lo scorsero fermarsi a parlare con un gruppetto di uomini, che
lavoravano con dei cavi. Si guardò intorno.
La struttura in acciaio era
maestosa, tanto da fare paura. Crucciata, si accorse che l’uomo era tornato da
loro, facendole cenno di seguirlo.
Passarono lateralmente alla
struttura fino a vedere il maestoso stadio che all’imbrunire si popolava di
teste colorate e chiassose. Era la prima volta che si trovava in un posto come
quello e lo faceva dal lato opposto agli spalti.
«Fate attenzione a dove
mettete i piedi», le avvisò Diaz, scambiandosi segni d’intesa con alcuni
colleghi.
Erano giunte, senza
accorgersene, sotto il palco e a pochi metri iniziavano le prime transenne, per
contenere il pubblico festante. Il brusio generale stava diventando assordante.
Rafforzò la stretta alla mano di Veronica, che la ricambiò addossandosi a lei.
Sollevò il capo con il cuore in gola.
Riusciva a vedere poco da lì
sotto, ma il sapere che, a breve, lui sarebbe apparso la faceva tremare dalla
testa ai piedi per l’emozione.
Diaz recuperò degli scranni e
li sistemò tra le prime file, dove a seguire erano state collocate nuove
transenne, con una schiera di uomini alti e grossi, che portavano alle orecchie
degli auricolari. Tornò da loro, seguito da una donna, che sembrava una
coetanea. Una signora bionda, con fluenti capelli che le sfioravano le spalle e
luminosi occhi azzurri, che spiccavano tra tutte quelle carnagioni scure.
All’altezza del seno aveva un cartellino, con il suo nome e il ruolo, ma non
riusciva a leggerlo bene.
«Benvenute!», le salutò,
allungando una mano. «Io sono Patricia. Faccio parte dell’organizzazione e
stasera sarò la vostra ombra, per accertarmi che non vi succeda nulla».
«Buonasera», la salutò,
guardandosi intorno, prima di chiederle: «Dove possiamo metterci, per essere
certe di vederlo bene?».
«Venite», le accompagnò tra
le prime barriere, dove Miguel aveva sistemato gli scranni.
Si accorse che anche altre
persone si erano sedute nel frattempo e si affrettò a prendere posto, temendo
che la costringessero ad arretrare. Veronica la seguì in silenzio, con il naso
in aria e la bocca aperta. Non aveva mai partecipato a un concerto, come lei, e
tutto era nuovo e stupefacente.
Patricia si piegò sulle
ginocchia, tirando fuori da un borsello due pass che appuntò sulle loro
magliette.
«Non dovrete allontanarvi da
qui», le informò, addolcendo l’espressione seria, quando si accorse della loro
apprensione. «Qui siete al sicuro», sollevò il capo oltre le loro teste, con un
sorriso. «Li vedete quei signori?».
Annuirono all’unisono e lei
approvò entusiasta. «Sono guardie del corpo che impediscono al pubblico di
superare le transenne. Io sarò sempre nei paraggi, ma quando arriverà Pablo ci
sarà un po’ di trambusto e voi dovrete restare ferme qui, per non rischiare di
perdervi. Nel caso dovesse succedere, tornate sotto il palco e ci ritroveremo
facilmente. Capito?».
«Certo», rispose sicura.
«Ok», approvò la bionda,
poggiandole una mano sul capo, come se si trattasse di un bambino da rabbonire.
Avrebbe voluto farle notare che quel giorno compiva quindici anni, ma dal palco
giungevano i primi strimpelli ed era troppo presa per continuare quella
conversazione.
Con il passare dei minuti, le
luci si accesero e progressivamente tutto si dispose all’inizio dello
spettacolo. Patricia aveva fornito loro dei cappellini con visiera e una
bottiglietta d’acqua, e di tanto in tanto tornava a controllare che stessero
bene. Infine sedette al suo fianco e Federica capì che il momento tanto atteso
era arrivato.
Le luci si spensero e un
boato riempì lo stadio.
Pablo Echevarría fece la sua
comparsa sul palco e il suo cuore si fermò qualche istante, riprendendo poi a
battere frenetico. Si alzò in piedi per applaudire e lo scorse afferrare con le
mani il microfono per salutare il pubblico.
«È un immenso onore per me
essere qui in vostra compagnia!».
Era più magro di come appariva
sui giornali e in televisione. Aveva dei capelli ancora più neri dei suoi,
leggermente ondulati. Alcune ciocche gli sfioravano il collo. Era, come sempre,
vestito di nero, con lunghe catene d’argento, che pendevano al collo. Dopo un
breve saluto, diede le spalle al pubblico per dare l’attacco ai musicisti e
iniziò a cantare i suoi pezzi più famosi.
Veronica e lei, insieme con
altre ragazzine poco distanti, si unirono nel terminare le strofe,
accompagnandolo a squarciagola. L’indomani non avrebbe più avuto voce, ma non
le importava. Era il compleanno più bello della sua vita.
«Hai visto quanto è figo?».
Veronica la tirava per la
maglietta, strabuzzando gli occhi neri e lucenti. Era la figlia della
cameriera, di un anno più piccola. Frequentavano due istituti diversi, ma
finite le ore scolastiche si riunivano per ascoltare la musica o per parlare
delle loro passioni comuni: la pallavolo, i cantanti, i film e naturalmente i
ragazzi.
Veronica era innamorata di un
compagno di scuola, che usciva con una sua amica, mentre lei non aveva occhi
che per lui! Sollevò ancora di più il capo e le sembrò di avere le pupille a
cuore.
Pablo si muoveva con
sicurezza sul palco, invitando il pubblico a cantare con lui e anche se non
l’avrebbe mai conosciuto, il suo petto batteva all’impazzata.
Erano arrivati a metà
concerto, quando Pablo chiese ai musicisti di cambiare musica. Le luci mutarono
e sul palco divenne tutto rosa.
In platea, alle sue spalle,
si sentiva un brusio generale, come se ci fosse una grande aspettativa. Sentì
le ginocchia tremare. A volte, aveva letto sulle riviste, Pablo sceglieva tra
il pubblico una fan e scendendo dal palco le si avvicinava, invitandola a
salire sulla scena con lui. Non accadeva sempre, ma le ragazze facevano a gara
per occupare i primi posti, dietro le transenne, e grazie all’amico di suo
padre, anche lei e Veronica erano in una posizione propizia. Sempre che si
voltasse dalla loro parte, certo.
«Vi state divertendo?».
La signora bionda si chinò su
di lei sorridente e un fascio di luce le sembrò investirla. Sollevò il capo,
strizzando gli occhi. Ne era così abbagliata da non riuscire a vedere nulla.
Provò a scostarsi, ma la voce di Pablo attirò la sua attenzione.
«Un uccellino mi ha detto che
tra di voi c’è una persona che per il suo compleanno ha chiesto di partecipare
al mio concerto, rinunciando alla festa…».
Il cuore di Federica subì un
arresto. Poi riprese la sua corsa furiosa. No, non poteva essere lei. Chissà
quanta gente partecipava al concerto. Prima che le luci si spegnessero, le era
parso di vedere gli spalti pieni e quel posto era immenso. Si scosse, cercando
di prestare attenzione a quello che il suo idolo stava dicendo, anche se
l’invidia la punzecchiava dispettosa. Chissà chi era la fortunata!
Finalmente la luce si spostò,
ma Pablo non era più sul palco. Frenetica lo cercò, annaspando, ignorando
Veronica, che continuava a tirarla per la maglia.
«La vuoi smet…».
Le parole le morirono sulle
labbra.
A pochi passi da lei c’era
proprio lui e i suoi occhi verdi, così belli, da togliere il fiato, erano fissi
nei suoi. Aprì la bocca, annaspando, alla ricerca dell’aria, ma si sforzò di
non svenire, perché lui aveva allungato una mano, rivolgendole la parola.
«Andiamo?».
Federica non si mosse.
Sentiva le gambe pesanti e le sembrava di essere salita su una nuvola. Forse
stava ancora dormendo nella sua camera e tutto quello che stava vivendo non era
poi così reale.
«Non vuoi venire?», le chiese
sorridendo, prima di rivolgersi al pubblico.
«Sì, certo», riuscì a
rispondere con enfasi.
Il volto del suo adorato
Pablo s’illuminò, afferrandola per mano. Era più grande di sette anni, ma a lei
sembrava perfetto, tanto da ignorare la differenza di età.
Lo seguì incredula, risalendo
di corsa la scala che conduceva al palco. Il boato nel pubblico era così
lontano e lui continuava a intrecciare le dita alle sue. Si era avvicinato al
microfono e aveva cominciato a intonare la canzoncina di auguri che tutti
conoscevano.
Sentì le lacrime salire agli
occhi incontrollate e, con un gesto furtivo, se le asciugò con il dorso della
maglietta di cotone. L’ultima cosa che voleva era essere considerata una
bambinetta, ma tutto quello che stava accadendo era così bello da sembrare
irreale. Pablo era a pochi passi da lei, la teneva per mano e la poneva al
centro della sua attenzione.
«Quanti anni compi?», le
chiese a un tratto.
«Quindici», rispose in un
soffio e lui si chinò porgendole l’orecchio, come se non sentisse, mentre si
portava il microfono alle labbra.
«Quindici», ripeté con
maggiore enfasi.
«Wow!», esclamò. «Allora
dobbiamo festeggiare», si voltò verso il pubblico. «Non è vero?».
«Sììììì», fu la risposta
corale.
Si piegò leggermente sulle
ginocchia. Era molto più alto di lei, anche se Federica non era proprio bassa.
«Che ti piacerebbe fare?», le
chiese. «Qualsiasi tuo desiderio sarà esaudito», le promise.
Inspirò profondamente e
infine rispose: «In verità ho due richieste …».
«Due. Addirittura!», la
canzonò, senza mai lasciarle la mano.
Trattenne il fiato,
attendendo la sua risposta.
Lui sembrò rifletterci.
Aggrottò la fronte, facendo delle smorfie buffe, prima di tornare a lei.
«Accordato. Non si compiono due volte quindici anni», riconobbe, prima di farla
voltare verso il pubblico, per chiederle: «Sentiamo queste richieste».
Incredula, si fece audace.
«Vorrei vedere tutto il concerto
da un angolo del palco».
«Si può fare», annuì.
A Federica sembrò di toccare
il cielo.
«E la seconda?».
«Vorrei dare e ricevere il
mio primo vero bacio», arrossì fino alla radice dei capelli.
Non avrebbe mai creduto di
trovare il coraggio di chiedergli una cosa simile, anche se lo aveva sognato
spesso.
Pablo parve sorpreso. Le sue
dita si allentarono qualche istante, mentre i suoi occhi ruotavano verso la
parte interna del palco, sull’entrata laterale. Le labbra serrate si schiusero
leggermente, mentre girava su stesso per chiedere al pubblico:
«Che dite? Esaudiamo il sogno
della nostra quinceañera?».
La risposta non si fece
attendere. Fu un grido unanime: «Sìììì».
Pablo si sollevò, senza lasciare
la presa.
«Prima però creiamo
l’atmosfera», stabilì, facendo cenno ai musicisti di passare al pezzo
successivo.
Federica lo riconobbe
immediatamente. Era una canzone molto romantica.
«Visto che presto ci
baceremo, fingiamo che tu sia la donna di cui sono innamorato e che non voglia
perdonarmi, anche se ricambi i miei sentimenti».
Annuì determinata, sentendo i
capelli lunghi e neri scivolare fluidi lungo la schiena.
«Conosco la canzone», lo
rassicurò e scorse un sorrisetto divertito sulle labbra di lui.
Si liberò a malincuore della
sua mano, dandogli le spalle, con le braccia incrociate sotto il petto.
Con la figuretta esile, se ne
stava rigida e dritta, come una donna profondamente offesa nell’onore. Non
poteva vederlo, ma le sembrò di sentire nella sua voce una risata soffocata,
come se apprezzasse la sua capacità di entrare nella parte. Quando lui cercava
di afferrarla per la vita, lei si scostava, rivolgendogli sguardi truci. Il
risultato doveva piacere anche agli altri, perché applaudivano, ripetendo il
suo nome. La canzone lentamente volgeva al termine e finalmente poté voltarsi.
«Sai che il mio cuore è tuo»,
le stava cantando Pablo e lei s’immaginò nella sua cameretta, con la musica a
tutto volume. Fantasia e realtà si confusero, mentre riviveva quella scena
tante volte immaginata. L’amore della sua vita le si avvicinava, avvolgendola
nel suo abbraccio e con lo sfumare delle note la stretta intorno alla vita si
rafforzò e Federica vide il viso di lui avvicinarsi lentamente.
Rimase con gli occhi aperti,
spalancati sul suo volto. Le sue amiche le avevano detto che andavano chiusi,
ma lei non voleva perdersi neppure un secondo di quello che nella sua vita
sarebbe rimasto come un episodio indelebile e irripetibile. Scorse le palpebre
di lui scendere sulle iridi verdi e sentì il tocco delle sue labbra a contatto
con le sue. Erano morbide e soffici. Si chiese cosa dovesse fare per
rispondergli, ma sentì le mani del cantante risalire lungo la schiena e aderì
al suo petto. Aveva un odore piacevole e nonostante fosse sudato, continuava a
profumare. Si accorse che le dita erano salite alla nuca e il bacio si era
fatto più insinuante. Avvertì la sua lingua e istintivamente s’inarcò contro di
lui, aprendo la bocca per riceverlo. Si muoveva a suo agio, come se non avesse
fatto altro per tutta la vita e lei era attraversata da sensazioni così
piacevoli, che non avrebbe mai voluto allontanarsi. Timidamente, provò a
rispondere al suo tocco, imitandolo, fino a quando le loro lingue si toccarono.
Provò a tirarsi indietro, ma lui rafforzò la stretta e lei capì che avrebbe
voluto che continuasse. Ringalluzzita, prese coraggio e affondandogli le mani
tra i capelli lo attirò nella sua bocca. Le sembrava di sentire fischi e applausi,
insieme allo strimpellare di una chitarra, ma tutto arrivava ovattato e
mescolato alle piacevoli sensazioni che attraversavano il suo corpo. Si accorse
che il respiro era diventato affannato e si sciolse da quell’abbraccio, a
malincuore, posando gli occhi sul quel petto che rispondeva al suo. Come lei,
anche lui, faticava a tornare alla realtà. Sollevò lentamente lo sguardo sul
suo viso. La teneva stretta, con lo sguardo fisso sulle sue labbra, ma scivolò
poi nei suoi occhi e un sorriso lo illuminò, mentre allentava la presa e
recuperato il microfono, esclamava: «Però! Promette bene».
La risata generale la riportò
alla realtà. Il sogno era finito. Ora non le restava che allontanarsi
nell’ombra del palco, in quel lungo e interminabile saluto.
I musicisti avevano attaccato un nuovo pezzo e
lui si era chinato a baciarle la mano in un gesto galante. Scorse Patricia, con
Veronica, sulla sinistra, all’entrata del palco, che le facevano cenno di
avvicinarsi.
«Com’è stato?», le chiese
l’amica.
«Indimenticabile», rispose
lei, con aria sognante e le sembrò di scorgere il loro angelo custode ridere
divertita, poggiandole una mano sulla spalla.
Il concerto continuò senza
intoppi.
Federica faticava a restare
con i piedi per terra. Avrebbe voluto registrare nella mente ogni singolo
passaggio di quella serata, ma le emozioni vissute erano troppe e faticava a
tenerle raccolte.
Si accorse che Pablo stava
salutando, pronto a congedarsi, e vicino a lei si erano affollati un bel numero
di persone. L'avrebbe salutata, uscendo? Lo sperò. Infondo si erano scambiati
un bacio. Che sciocca, pensò. Doveva averne baciate centinaia di donne. Per lei
invece era il primo.
«Veronica deve andare in
bagno. Vieni anche tu?», le chiese Patricia, preparandosi a uscire.
Scosse il capo. «Vi aspetto
qui», rispose. Non voleva perdersi neppure un istante del suo passaggio. Lo
avrebbe salutato e forse lui le avrebbe anche risposto con un cenno della mano.
Si sentì strattonare e si
mosse leggermente. Pablo si sbracciava, sparendo nell’ombra. Era a pochi passi
da lei, ma non la vedeva. Lo circondavano diverse persone, tra cui un omone
grande quanto un armadio, che sembrava particolarmente arrabbiato. Una donna
gli allungò un asciugamano e lui si tamponò il sudore del viso e del collo,
ascoltando l’uomo furioso.
«Che ti è saltato in mente?
Baciare una ragazzina di quindici anni, come un porco pervertito? Sarebbe
bastato sfiorarle le labbra. Vuoi che il padre ci denunci? Domani sarà su tutti
i giornali», gesticolava animatamente.
Federica avrebbe voluto
intervenire. Anzi era sul punto di farlo, quando sentì la risposta di lui e il
mondo sembrò crollarle addosso.
«Tranquillo! Puttane si nasce
nella culla e quella promette proprio bene. Devi vedere come bacia. Altro che
il suo primo bacio. Deve essersene passati diversi. Ero così eccitato che me la
sarei fatta davanti a tutti».
Un dolore le attraversò il
petto. Si accasciò su se stessa, mentre, arretrava dietro un tendaggio, per
sparire alla vista di tutti, ma soprattutto alla sua.
1
Milano
Lavorare per la rivista Famosi le era parsa una grande
occasione, quando, dopo la laurea e il master in editoria multimediale, le
avevano proposto uno stage, a cui aveva fatto seguire l'esame di stato, che
aveva superato brillantemente. Ai primi passi era seguita un’assunzione a tempo
determinato per sei mesi, che le era stata poi rinnovata per almeno due volte.
Mancavano ora poche settimane alla scadenza e in cuor suo sperava che questa
fosse la volta buona per trasformare il rapporto in tempo indeterminato. In
quell’anno e mezzo si era fatta valere, portando a casa interviste con alcuni
esponenti politici messicani e argentini. I ritratti che ne aveva fatto erano
piaciuti al suo capo redattore che ne aveva parlato anche con il direttore
generale. Insomma, una conferma le sembrava giusta e plausibile.
Lavorava sodo e non si tirava
indietro, anche quando le veniva chiesto di correggere delle semplici bozze.
Era disponibile e gentile con le colleghe e capace di muoversi su più fronti.
L’ultimo incarico la vedeva relegata alla rubrica di cucina internazionale. Non
le piaceva particolarmente, ma aveva accettato per mostrarsi flessibile.
La sua scrivania era piena
fino all’inverosimile e le colleghe continuavano a riversare faldoni,
ripagandola con bicchierini di caffè. Se ne avesse bevuto ancora uno
l’avrebbero ricoverata d’urgenza al primo presidio ospedaliero.
La porta si aprì e Monica, la
segretaria del direttore generale, una rossa tutte curve, si avvicinò alla sua
postazione, ancheggiando sui tacchi a spillo.
«Non se ne parla proprio», sollevò
una mano e con l’indice mimò un fermo diniego.
Monica sorrise, aggrottando
la fronte, mentre si sedeva sulla punta del tavolo, incrociando le belle e
lunghe gambe, che tanto facevano impazzire il suo capo.
Quella storia andava avanti
da prima del suo arrivo in redazione e nonostante non ci fossero prospettive,
visto che il presidente era sposato con prole da almeno trent’anni, lei
sembrava soddisfatta.
Le iridi calde e dolci come
il miele si posarono divertite sul suo volto. Allungò una mano curata, con le
unghie laccate di un rosso fuoco, giocherellando con una penna.
«Se non ti ho detto nulla,
come puoi già rifiutare?».
Federica si piegò nelle
spalle.
«Non posso sostituirti
all’ora di pranzo. Non posso coprirti per un appuntamento dal ginecologo e non
ho tempo per trascriverti nulla. Ho un’agenda pienissima», assicurò.
La segretaria fece roteare
gli occhi al soffitto, con finta sopportazione.
«Sei come sempre prevenuta»,
sbuffò, chinandosi leggermente, mettendo in mostra quello che offriva il
generoso decolté.
Distolse lo sguardo, tornando
allo schermo del computer.
«Vorrei farti notare che la
mia preferenza è per il mondo maschile».
La risata divertita
dell’altra, la strappò dalle sue incombenze.
«Non ne ho mai dubitato e
come ben sai anch'io sono etero», si sistemò la giacca, che lasciava
intravedere un reggiseno di pizzo.
Non erano affari suoi, ma
nonostante condividesse ben poco con lei, le era simpatica.
«Mi dirai di farmi gli affari
miei e hai ragione, ma mi dici come può piacerti un uomo sposato che ha molti
più anni di te?».
Come sempre non si scompose.
Scese dalla scrivania, lisciandosi la gonna, con estrema calma, posando infine
lo sguardo su di lei.
«Non tutte siamo come te», le
disse e Federica aggrottò la fronte, incerta. «Tu sei bella, colta,
intelligente e di buona famiglia. Hai girato il mondo al seguito dei tuoi
genitori e hai al fianco un uomo con cui ti sposerai presto, mentre io ho un
diploma di estetista, che non ho mai utilizzato, e mia madre era una tossica.
Mi ha cresciuto mia nonna, fino a quando non è morta. Pietro Villetri è il
meglio sulla piazza per una come me. Mi paga lo stipendio, anche se lavoro
poco, mi ha comprato una casa e con la scusa della moglie e dei figli, non mi
chiede mai più di quando sia disposta a dargli», fece una piccola smorfia.
«Non ci credi neppure tu a
quello che dici», sbottò Federica, incrociando le braccia sotto il petto. Si
piegò sulla scrivania di pressato bianco, scostando una pila di pratiche da
controllare e archiviare. «Tu vali e, continuando a frequentare un uomo
impegnato, ti priverai della possibilità di diventare madre e di farti una vita
tutta tua. Lo sai questo?».
Le dita laccate disegnarono
delle figure geometriche davanti a lei.
«Per fare quello che dici tu
dovrei licenziarmi e pensi che qualcuno mi assumerebbe senza referenze e competenze
specifiche?».
Federica la osservò. Era
bella, appena trentenne e anche se non aveva studi specifici ed esperienze
significative nel mondo lavorativo, poteva trovare qualcosa. I suoi occhi
scesero alla figura snella e formosa.
«Potresti cercare lavoro come
commessa in qualche boutique lussuosa», improvvisò. «Ce ne sono alcune che
pagano bene e considerato che non hai bisogno di fittarti una casa, vivresti
dignitosamente», le assicurò. «Potresti riprendere gli studi e…».
«Sei molto cara, ma credimi,
non mi conviene mollare il mio pollo». Con un balzo scese dalla scrivania,
dando uno sguardo distratto agli alti e grigi palazzi che si scorgevano dalla
sua finestra. Inspirò leggermente, tornando a lei.
«Comunque il capo ti vuole
parlare», le riferì.
«A me?», chiese incredula.
Era assai raro che il
direttore generale si ricordasse di lei.
«Sai che vuole?».
«Penso ti voglia affidare un
incarico».
Una certa euforia si fece
strada in lei. Che Roberto fosse riuscito a parlargli, mostrandogli il suo
curriculum? E allora, perché non le aveva detto niente? A dire il vero, nelle
ultime settimane si erano visti poco e la cosa appariva ridicola, visto che
dividevano lo stesso appartamento, ma il suo compagno era un miraggio nella sua
vita quotidiana. Appariva e spariva di ritorno da un viaggio e in partenza per
un altro. Andare a vivere insieme non era stata una scelta consapevole, ma
un’esigenza imposta dalle circostanze. Altrimenti non si sarebbero mai incontrati
e il loro rapporto si sarebbe estinto per mancanza di contatti.
«Che tipo di incarico?», le chiese
alzandosi.
Sfilò dal cassetto la borsa e
ne tirò fuori uno specchietto. Lo aprì, osservando critica la sua immagine
riflessa nello specchio. I capelli neri e lisci le accarezzavano le spalle. Gli
occhi grandi e scintillanti, di un azzurro intenso, erano un vezzo in quel viso
carino, ma a suo parere non perfetto, che le regalavano vivacità. Fece una
smorfia. Il trucco aveva retto ed era ancora presentabile, anche se erano le
quattro del pomeriggio.
«La vuoi smettere di
rimirarti? Sei bellissima. Avessi io il tuo fisico asciutto e quell’incarnato
diafano. Sembri una damina dell’Ottocento, uscita da un quadro».
«Che sciocchezze!», si
schernì, sistemandosi la giacca del tailleur, scuotendo il pantalone che finiva
sull’orlo dei mocassini.
Roberto era alto quanto lei,
un metro e settantacinque, e con i tacchi lo avrebbe superato abbondantemente.
Così aveva perso l’abitudine di indossarli e con il tempo si era assuefatta
alla comodità di un abbigliamento sobrio e lo trovava terribilmente
rassicurante.
«Andiamo o ti serve un’altra
mezz’ora?», la canzonò Monica, anticipandola alla porta.
♫♫♫
L’ufficio del capo era
all’ultimo piano di quel palazzo di vetro. Dalla finestra, sul lato della
porta, si poteva scorgere l’aria finanziaria della città, con i suoi alti
palazzi anonimi e la frenetica vita lavorativa. C’era sempre qualcuno con la
testa piegata su un telefono, o la ventiquattrore serrata al braccio.
Monica scivolò dietro la sua
scrivania immacolata, componendo l’interno del direttore.
«Federica Bocci è arrivata.
La faccio passare?», sollevò lo sguardo su di lei, restando in attesa.
Ne approfittò per guardarsi
intorno. Non saliva spesso a quel piano. Di solito era Monica che la
raggiungeva al quinto, ma era capitato che si affacciasse e ogni volta era
stupita dalla formalità di quel posto. Era come se tutto fosse sistemato con un
ordine maniacale. Ogni oggetto era collocato ad arte, dalla pianta per interni,
vicino alla vetrata, al divanetto con vista sul mosaico di riviste, che
occupava la parete di fronte. Un grosso mobile in noce copriva il muro
principale e le ante chiuse impedivano di sbirciare al suo interno.
«Ti aspetta».
Si distolse dai suoi
pensieri, per bussare discretamente alla massiccia porta con l’etichetta in
oro, che riportava il nome del titolare: dott. Pietro Villetri.
«Avanti», rispose la voce
tonante del direttore.
Piegò la maniglia ed entrò.
Si ritrovò in una stanza
ampia e spaziosa, dall'arredo moderno ed essenziale. La scrivania del capo era al
centro dello studio, sullo sfondo di una vetrata, celata da un pesante
tendaggio blu.
Era seduto alla sua
postazione, con il capo chino su dei fogli. Scriveva senza sosta, ma sentendola
entrare sollevò lo sguardo. Era un uomo sui sessanta, con una pronunciata
calvizie e una prominente pancia, che non riusciva a nascondere neppure con i
suoi completi scuri. Le fece cenno di sedere in una delle due poltrone che
aveva davanti.
Federica non se lo lasciò
ripetere nuovamente. Scivolò nella poltrona accavallando le lunghe gambe
snelle, restando in attesa. I suoi occhi spaziarono nella stanza ammirando
alcune stampe sulle pareti, che riproducevano squarci della Milano storica.
«Dottoressa, andiamo subito
al dunque…», irruppe nei suoi pensieri.
Si voltò a guardarlo attenta.
Aveva un naso importante e labbra sottili e grandi. Gli occhi castani, nascosti
dietro le lenti, brillarono vivaci. «Sono contento di comunicarle che presto il
suo rapporto da tempo determinato si trasformerà in un contratto a tempo
indeterminato».
Federica trattenne il
sussulto di gioia che le era salito alle labbra, portandosi le mani alla bocca,
cercando di ritrovare il contegno.
Velletri sorrise, ma
sollevando la penna che brandiva come un’arma, gliela puntò contro.
«Non canti ancora vittoria», la
avvisò.
Si mosse a disagio sulla
poltrona, crucciata.
«Dottore, con tutto il
rispetto, penso di aver fatto un buon lavoro in quest’anno e mezzo».
«Sì, è così, ma la rivista,
negli ultimi tempi, ha arrancato un po’ e non posso permettermi nuove
assunzioni. Dunque, prima di formalizzare il nostro rapporto, devo accertarmi
che ricoprirà l’incarico che sto per offrirle».
«Vuole propormi un cambio di
mansione?».
L’uomo si addossò alla
poltrona, pensieroso. Si inumidì le labbra, cercando le parole.
«In un certo senso», ammise.
«Si tratterebbe di seguire una persona per dodici mesi, attraverso i suoi
spostamenti, il suo lavoro, la sua vita privata, trasformandoli in articoli per
la rivista e in una biografia finale, che scriverà a quattro mani con una star
del panorama internazionale».
«Accetto», si affrettò a
rispondere.
Niente di più fattibile per
lei, ma Velletri sorrise, facendole cenno di procedere con calma.
«Non è così semplice. La
persona che dovrebbe seguire in questi mesi è un personaggio parecchio
chiacchierato, che negli ultimi anni ha accumulato successi, ma anche grandi
eccessi. Di recente è stato ricoverato in una clinica per disintossicarsi».
Fece una smorfia. L’idea di
passare le giornate fronteggiando le bizze di una stella capricciosa e volubile
era molto meno allettante di quanto immaginasse, ma poteva sobbarcarsi qualche
compromesso.
«Va bene», acconsentì.
Il sopracciglio dell’uomo s’inarcò,
scrutandola attentamente.
«La persona in questione non
è italiana, ma trascorrerà buona parte del prossimo anno nel nostro paese, per
mantenere fede ad alcuni degli impegni presi. Lei lo dovrà seguire in giro per
l'Italia ed eventualmente anche all'estero, se dovesse spostarsi. Sarà la sua
ombra».
Federica fece una smorfia,
cercando di non lasciare intravedere crepe nella sua posa professionale.
«Il vostro punto di
riferimento sarà Ischia».
«Ischia?», esclamò sorpresa.
Suo padre era di quell'isola vicina a Napoli e lei stessa vi era tornata per le
vacanze nei primi anni di vita. Non aveva molti ricordi di quel posto, ma il
suo genitore gliene parlava sempre con affetto e nostalgia.
«Sì», le confermò il
direttore. «Pare che abbia degli amici lì, che gli hanno messo a disposizione
una casa». L'uomo si piegò nelle spalle. «Il posto è tranquillo, ma lei lo
dovrebbe sapere o sbaglio?».
«Ho origini ischitane», annuì,
vedendo il superiore sorridere soddisfatto.
«Ho chiesto se potesse essere
ospitata anche lei in villa, ma per il momento non ho avuto riscontro e dunque
le prenoteremo un albergo per i periodi in cui il nostro personaggio
soggiornerà sull'isola, almeno che lei non abbia dove pernottare».
Lo sguardo speranzoso la
diceva lunga sulla scelta. La rivista voleva risparmiare sulle spese, ma si
poteva fare.
«Non dovrei avere problemi,
ma le chiedo qualche giorno per appuralo», riconobbe, riservandosi la possibilità
di parlarne con i suoi, prima di dare una conferma.
Velletri annuì soddisfatto.
Anche questo punto era chiarito e aveva ripreso la sua esposizione:
«Proveremo a strappargli
qualche altra concessione, perché come comprenderà vivere nella stessa struttura
del nostro uomo ci consentirebbe di conoscere aspetti meno noti della sua vita
privata, che poi potremo rielaborare per gli articoli e il libro».
«Naturalmente», rispose
comprensiva, anche se cominciava a chiedersi l'identità della persona che avrebbe
dovuto tallonare.
«È una donna?».
Rabbrividì all'idea di una
diva capricciosa, circondata da guardie del corpo. Fece una smorfia. Nonostante
tutto non avrebbe potuto rifiutare. Un'occasione come questa non le sarebbe più
capitata.
«È un uomo», le rispose il
direttore, con uno strano sorrisetto sulle labbra. «Se vuole, parlo io con
Roberto».
Quell'accenno alla sua vita
privata, la fece arrossire.
«Non è necessario», assicurò,
abbassando lo sguardo.
Di lui si sarebbe preoccupata
dopo. Un anno in viaggio avrebbe rappresentato una prova difficile, ma utile
per testare la solidità del loro rapporto, visto che pensavano di sposarsi
presto.
«Meglio così», osservò
l'uomo, tornando a sfogliare delle carte davanti a lui, prima di scrutarla
attraverso i suoi occhiali. «Roberto non mi è mai parso un tipo geloso e lei
naturalmente non gliene dà motivo, ma il nostro personaggio piace molto al
mondo femminile».
Federica sollevò un
sopracciglio. Tutto questo giro di parole cominciava a irritarla.
«Posso sapere chi è?».
Velletri non le rispose. Tirò
fuori dalla cartellina una foto e gliela mostrò.
Sentì il cuore venirle meno e
il sangue arretrare nelle vene. Sollevò lo sguardo in quello attento del suo
capo.
«Pablo Echevarría?», riuscì a
chiedere, annaspando nel buio.
Doveva essere impallidita,
perché il direttore si prese il disturbo di prenderle la mano attraverso la
scrivania.
«Si sente bene?», le chiese,
aggrottando la fronte preoccupato. «Le faccio portare dell'acqua?».
La mano le tremava
vistosamente e chiuse gli occhi per qualche istante. Il tempo necessario per
raccogliere tutto il contegno possibile per informarsi sulla questione più
impostante.
«Dovrei passare un anno al
seguito di Pablo Echevarría?», la voce tremò leggermente, mentre elaborava il
suo pensiero.
«Sì», le confermò,
addossandosi alla poltrona pensieroso. «Mi rendo conto che è un incarico di
grande responsabilità e che lei si è specializzata da poco, ma...».
«Non è questione di
esperienza», lo interruppe, lasciando ricadere sul ripiano la fotografia. Si
portò la mano chiusa a pugno davanti alle labbra pensierosa. Doveva trovare le parole giuste per spiegare il suo
rifiuto. «È che...». Richiuse la bocca, per tornare a quell'immagine della pop
star sul palco, mentre si esibiva nel suo solito abbigliamento: pantaloni di pelle
nera e camicia trasparente dello stesso colore, che metteva in mostra un fisico
scultoreo. Erano trascorsi undici anni, ma sembrava che il tempo non fosse
passato. «È che...», riprese da dove aveva lasciato, senza trovare il coraggio
di parlare.
«Dottoressa, non perdiamo
tempo».
Il direttore si sporse leggermente
sottraendole la foto. Sembrava spazientito. Si portò l'immagine sotto gli occhi
e tornò a guardarla. «Il suo contratto è in scadenza, come quello di altre
persone. Se non fosse per la sua conoscenza della lingua spagnola, non le avrei
proposto questo incarico e lei, come le altre, sarebbe già fuori dall'azienda».
Federica incassò il colpo,
stringendo i denti, socchiudendo leggermente le palpebre. Non avrebbe potuto essere
più brutale, ma il mondo del lavoro non conosceva remore. Erano lì per produrre
e le questioni personali non importavano a nessuno.
«Non mi consideri un'ingrata,
perché non lo sono. Apprezzo molto il fatto che abbiate pensato a me, ma...».
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e con uno sforzo le ricacciò indietro.
Sollevò leggermente le spalle e infine disse: «Non posso».
Sentì il respiro pesante
dell'uomo e il suo pensiero volò a quel cielo limpido e insolito per Milano,
che contrastava così pesantemente con l'aria che si respirava in quella stanza
cupa, con le tende chiuse e la luce artificiale accesa.
«Posso sapere il motivo?»,
rinfilò la foto nel plico, chiudendolo.
«È una lunga storia...»,
tergiversò.
«E lei la renda breve»,
sbottò l'uomo di cattivo umore.
Strinse le labbra, cercando
una qualsiasi scusa, ma il suo cervello era come paralizzato. Sentiva la sua
figura tremare leggermente e in silenzio si rimproverò per la mancanza di
coraggio. Poteva confessargli che da ragazzina era innamorata di lui e questi
le aveva spezzato il cuore? L'avrebbe presa per una stupida o forse l'avrebbe
incoraggiata per poi ricavarci qualcosa.
«Preferirei non parlarne»,
arrossì leggermente.
Il direttore la osservava
pensieroso. Gli occhi ridotti a due fessure, puntellava la penna sul planner
davanti a lui.
«Si rende conto che, di fatto,
è già fuori da Famosi?».
«Sì», annuì risoluta.
«E non le importa?».
«Mentirei, se le dicessi che
non mi spiace lasciare questo impiego e anzi mi rendo disponibile a ricoprire
qualsiasi altro incarico, ma non questo».
«Le confesso che non la
capisco. Echevarría è un nome altisonante nel mondo della musica. Nonostante il
suo sia un genere molto pop, piace anche alla critica», le si avvicinò
attraverso la scrivania, con un sorrisetto malizioso sulle labbra. «Non si sa
molto della sua vita privata, tranne che proviene da una famiglia ricca e che
non ha una compagna fissa. Si parla anche di grandi eccessi, ma non si hanno
prove e questo rende ancora più appetibile la sua disponibilità ad avere
qualcuno tra i piedi». Tornò alla sua spalliera, osservandola curioso. «Non è
stato semplice strappargli il consenso, ma lo abbiamo ottenuto. È da più di un anno che lavoro a questa cosa.
Ho stretto accordi con altre riviste europee e americane, per rivendermi le
informazioni che pubblicheremo su Echevarría e non posso permettermi sbagli. Se
non se la sente, pazienza. Devo però chiederle di non lasciare uscire fuori da
questa stanza il nome che le ho fatto». Si mosse leggermente sulla sedia, per
sistemarsi meglio.
«Non si preoccupi», abbassò
il capo sul grembo, continuando a torturarsi le mani.
Il telefono sulla scrivania
cominciò a suonare insistentemente. Velletri sollevò gli occhi al cielo
spazientito.
«Mi spiace che lei abbia rinunciato,
perché oltre a conoscere la lingua spagnola, lavora con noi da un po' e ora
dovremo invece affidarci a qualche sconosciuto, ma se non vuole ripensarci...».
Gli fece cenno di andare.
Non le restava che
raccogliere il suo orgoglio e lasciare la stanza. Sentì la voce tonante alle
sue spalle rispondere al telefono, mentre apriva la porta e incrociava lo
sguardo luminoso della segretaria.
«Com’è andata?».
Monica la guardava
speranzosa, ma l’entusiasmo iniziale si attenuò visibilmente davanti al suo
turbamento. Si alzò per prenderla per mano e farla sedere su una delle
poltroncine per gli ospiti. Si piegò sulle ginocchia.
«Che è successo?», rafforzò
la stretta della sua mano. «Non ti ha mica licenziata?», le chiese incredula.
«Non ancora», riuscì a
rispondere, tirando su con il naso. «Mi ha detto che se rifiuto l’incarico
dovrò trovarmi un altro lavoro».
Monica aggrottò la bella
fronte, cercando di rielaborare i dati.
«Perdona la franchezza, ma
non ti ha chiesto di seguire Pablo Echevarría?».
Nel pronunciare il nome del
musicista si guardò intorno, abbassando la voce.
«Come fai a saperlo?», le
chiese, portandosi una mano alla tempia, per controllare il dolore che
all’improvviso l’aggrediva.
«Sono stata io a fargli il
tuo nome», le rivelò, facendo una smorfia. I suoi occhi chiari e dolci come il
miele, si ravvivarono. «Maria delle risorse umane gli ha portato i contratti da
rinnovare e lui ha preso tempo, per poi confidarmi che non poteva confermare l'incarico
alle ultime arrivate, perché gli serviva qualcuno per seguire Echevarría. È
un'operazione importante che costerà parecchi soldi, ma, se andrà come sperato,
porterà lustro e visibilità alla rivista e alla persona che se ne occuperà.
Perché dovresti rifiutare?».
Il telefono sulla scrivania
squillò. Sbuffando, Monica sollevò il ricevitore. L'espressione sul suo viso
cambiò rapidamente, incupendosi. Fece una smorfia, affrettandosi a lasciare la
postazione per entrare dal capo. Si soffermò qualche istante a osservarla e
infine esclamò:
«Ti porto fuori a cena stasera.
Ti mando un messaggio, così mi dici dove devo venirti a prendere».
Si congedò con un bacio al
volo, inghiottita dalla stanza dei bottoni.
♫♫♫
Monica attraversò lo studio
sui tacchi a spillo. Il rumore era attutito dal parquet. Sculettò
adeguatamente, scorgendo lo sguardo cupo del suo uomo addolcirsi leggermente.
Cattive notizie in arrivo registrò, mentre lui ruotava sulla sedia e le faceva
cenno di sedere sulle sue gambe.
Sorrise maliziosa,
assecondandolo.
La gonna stretta del tailleur
salì leggermente sulle gambe e la mano rugosa dell'uomo s’infilò tra le sue
cosce, mentre gli gettava le braccia al collo per baciargli le labbra.
Lo sentì sospirare
compiaciuto, rilassandosi sulla poltrona.
«Che è successo?», s’informò,
carezzandogli un orecchio.
L'espressione turbata di
prima era sparita al suo tocco, ma ora tornava a irrigidirsi.
«Questo fine settimana non
potremo stare insieme».
Monica gli sollevò il mento,
per guardarlo negli occhi. Gli sfilò gli occhiali e li ripose sulla scrivania.
«Approfittiamone ora...», le
sue mani si posarono intorno al nodo della cravatta per allentarlo, ma lui la
fermò, sospirando.
«Ho una riunione tra dieci
minuti», le disse, scostandosi. «Ti ho chiamato per dirti di domani. L'ho
appena saputo», fece una smorfia. «Mi ero dimenticato l'anniversario di
matrimonio».
Monica sospirò dispiaciuta.
Era sempre la stessa storia, ma si costrinse a sorridere, alzandosi.
«Capisco», rispose
sistemandosi la gonna e poi i capelli.
Velletri recuperò le sue
cose, passandole accanto, ma prima di raggiungere la porta si voltò.
«La tua amica ha rifiutato
l'incarico, quindi chiama Maria e dille di fissare un appuntamento con le candidate
scelte».
Fece una smorfia. Non le
piacevano affatto quelle due. Sembravano disposte a qualsiasi cosa per ottenere
un incarico.
«Non dirmi che sei gelosa!».
Il volto grassoccio del suo
uomo s’illuminò.
Scosse leggermente la
capigliatura folta e riccia, sorridendo appena.
«Oramai mi leggi nella
mente», rispose, certa di avere la sua attenzione.
Lo raggiunse a passi lenti,
lasciando che lo sguardo dell'uomo corresse sulla sua figura armoniosa,
desiderandola, senza poterla avere per il momento. Gli gettò le braccia al
collo, rivendicando un bacio. Aveva le labbra rosso fuoco, morbide e sensuali.
Parve tentato. Rimase a
osservarla per un lungo attimo, ma infine si tirò indietro.
«Non posso. Ci manca solo che
arrivi sporco di rossetto», sospirò, stringendola a lui, per inspirarne il
costoso profumo che le aveva regalato.
Monica lo lasciò fare,
sentendo il naso nel suo collo. Ricambiò la stretta, sussurrandogli
all'orecchio:
«Per la mia amica, non
preoccuparti. Confermale l'incarico e dai il suo nominativo allo staff di Echevarría».
L'uomo si scostò leggermente,
aggrottando la fronte.
«Che hai in mente?».
Scrollò le spalle.
«Niente d’improponibile. Sono
certa che accetterà e se non dovesse farlo, chiameremo quelle due», gli
concesse.
Velletri la tenne stretta
qualche istante, scostata da lui, per osservarla attentamente.
«Ti concedo cinque giorni. Se
non cambia idea, è fuori», le disse, lasciandola andare.
Raggiunse la porta e piegò la
maniglia, voltandosi.
S’infilò una mano in tasca,
con un sorriso divertito sulle labbra.
«Perché ti interessi tanto a
quella ragazza?».
«Mi è simpatica», ammise,
scrollando leggermente le spalle, mentre si rimirava la manicure. Le unghie
lunghe, laccate di rosso, le snellivano le dita. «È una delle mie poche amiche.
L'unica in questo posto ed è molto preparata, dunque, ti faccio un favore,
impedendoti di licenziarla».
«Cinque giorni», le ricordò.
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